I Racconti della Montagna

”Questa sporca ultima Meta!”

Ricordi, aneddoti e confessioni salendo un monte

dell’Appennino Centrale.

Rincorrendo il senso vero della vita, angosce ed emozioni ma anche grandi libertà, scandiscono il rapporto singolare dell’uomo con  la montagna. Su oscure pareti di inaccessi versanti, giorni grandi e piccoli di un alpinismo "qualsiasi”.

Una nebbia sempre più fitta sta scendendo intorno. La montagna ora ha perso la sua nitidezza, speroni e salti rocciosi sono una massa oscura celata dietro un velo fluttuante che pregna l’aria di umidità e mistero. I colori, così sobri in un quadro invernale, sono scomparsi del tutto per lasciar posto ai grigi; un’infinità di sfumature intese a riportare la vista e l’animo a sensazioni primordiali di atmosfere rarefatte e prive di vita.

Da una manciata di minuti ho lasciato gli amici intimoriti e provati, che già il vento foriero di tempesta sta montando in un concerto dove l’armonia non è di casa. Non è il gioco di flauti che si rincorrono gioiosi tra gli anfratti delle rocce, ma urla strazianti, ululati che tolgono il respiro. I gracchi, solitamente leggeri e spensierati tra le turbolenze dell’aria, sono rintanati tra le pieghe del monte: la tempesta è in arrivo, tremenda come sempre e imprevedibile!

Solstizio d’inverno.

Il 21 dicembre del 1986, dal Passo dei Monaci alla vetta, saranno forse un trecento metri di dislivello: un’erta china d’estate, faticosa ma assolata. Adesso è inverno, un inverno precoce, quando una testardaggine fuori luogo, una passione acerba e molta inesperienza sono pronte a proiettarmi in un attimo al cospetto di Sua Altezza la Montagna, assisa su un trono di gelo, nella stagione più proibitiva dell’anno. Un’esperienza dura, dai risvolti per certi versi inesplicabili e una lezione severa, indimenticabile negli anni a seguire.

            La neve è durissima, escrescenze di ghiaccio ricoprono le rocce: bellezza fantastica quanto insidiosa. Tre passi avanti e una genuflessione sulla piccozza, il respiro è spezzato da folate cariche di minuti cristalli di neve che danzano impazziti nell’aria. -“La vetta è a due passi”- mi dico, - “un’ascesa veloce e sono giù dagli amici”-. La rinuncia oggi non fa parte del mio bagaglio, in compenso s’accavallano nella mente immagini e parole: tutta una letteratura alpinistica che per anni ha nutrito le attese incalzanti dei primi passi verso la montagna, quella vera, degli uomini barbuti al ritorno da “epiche lotte con l’Alpe”: Eiger, piloni del Freney, Chogolisa, Changabang, Cerro Torre,.....una sarabanda di luoghi e personaggi, tragedie e salvataggi, sofferenze ed emozioni che, in un attimo, come in una sequenza accelerata, scorre davanti ai miei occhi.

Rivivo le stesse sensazioni, riconosco gli stessi posti, provo le stesse difficoltà, avverto le stesse paure: picchi, campanili, strapiombi, creste e scivoli di ghiaccio fanno da corollario a quest’ennesima “impresa dell’inutile”. In mezzo a tutto ciò, la calma apparente di chi, incosciente, pensa di passare impunemente attraverso la soglia dell’ignoto, ignaro di essere invece molto, molto vicino alle porte dell’inverno.

La salita è interminabile e penosa. A tratti squarci di sereno si aprono tra le nubi violacee; il tempo sembra alimentare un’improvvisa speranza nell’animo, poi tutto torna a chiudersi in una caligine lattiginosa. Grossi fiocchi di neve si materializzano nell’aria e in un momento imprecisato, lontano mille anni luce dal conforto delle cose di tutti i giorni, ha inizio quest’avventura personale, di quelle con l’A maiuscola che lasciano un segno duraturo, accanto alla sensazione forte di aver vissuto un’esperienza psicologica fuori dal comune: uno sdoppiamento della personalità che cesserà solo con il ritorno a valle quando, voltandomi verso la montagna ancora fosca e invisibile, avvertirò in maniera chiara e inequivocabile una parte dell’io tornare nel suo involucro fisico, dopo lo sconfinamento in un’altra dimensione.

Nulla si scorge più, le rocce scure sulla neve si materializzano come fantasmi, all’improvviso. Sotto il riparo effimero di un masso aggettante, mi fermo accosciato a cercare un riparo precario dagli schiaffi del vento impietoso e ritrovare un po’ di calma. Non riesco ad tenere gli occhi aperti: gli occhiali, ormai inservibili, sono un grumo di ghiaccioli insieme alla barba e ai capelli.

Di certo non so dire se quel giorno ho raggiunto la “mia Meta”; lo sconvolgimento degli elementi era tale da non riuscire a capire ad un certo punto se stessi ancora salendo o camminando in piano. Pensieri sempre più foschi si fanno strada nell’animo, insinuandosi pian piano nella maschera di spavalderia e sufficienza che solo un’ora prima s’imponeva alla situazione. Ora la sensazione di essere solo, in mezzo alla tormenta, si fa di minuto in minuto più pressante e con essa il problema di come tornare indietro. Un senso di stupore, misto a stanchezza e rassegnazione mi assale, ma il dubbio non sfiora minimamente i pensieri: le stesse tracce della salita -una fievole bava di piccoli fori lasciati dai ramponi sulla neve dura- serviranno per trarmi d’impaccio da questa situazione a dir poco antipatica. E poi, -“voltandomi e scendendo in linea retta, guadagnerò certamente il pianoro. Anche in mezzo alla nebbia sicuramente mi renderò conto di aver raggiunto la base dello scivolo. Voltare a 90 gradi e dirigermi verso la via normale, sarà roba da ragazzi”-.

Così pensavo, o forse volevo crederlo di tutto cuore! Intanto la neve continuava a scendere copiosa da ridurre ben presto il mondo tangibile ad un misero fazzoletto ovattato. Questa situazione così claustrofobica, basterebbe già di per sé a far perdere la ragione, a noi che siamo abituati a misurare ogni singolo istante su chiari e sicuri punti di riferimento e fisiologicamente e mentalmente.

Delle tracce non v’è ombra, e mentre chino per resistere al vento, nella speranza di scorgere un segno, un sasso, una gobba, mi sforzo di procedere a ritroso, nell’animo si fa spazio la paura. Non il panico, ma il timore rassegnato di chi non ha altra scelta se non quella di vedere come vada a finire.

La sensazione che tutto si risolva per il meglio, come nel lieto fine di tutti i romanzi, alberga dentro di me, come un sottile, inspiegabile, preveggente ottimismo, a muovere l’altro piatto della bilancia di quel fenomeno sensoriale che scandisce i ritmi umani in condizioni limite.

Voltato le spalle, la situazione non cambia: stesso biancore accecante, stesso smarrimento. Le tracce della salita non esistono più, grattate dal vento, estirpate. Con somma concentrazione penso di procedere in linea retta lungo la massima pendenza, ma dopo pochi passi ecco innalzarsi nette due quinte di roccia ai lati dello scivolo. Credo di non averle notate in precedenza; ma chi può parlare di certezze in questo frangente! La mancanza di alternative e l’impulso di perdere quota in fretta, mi spingono a procedere verso il basso, ma l’inclinazione del pendio sembra aumentare. Il biancore omogeneo rende pericolosa la discesa, nasconde i bruschi cambi di pendenza o, peggio ancora, le buche e le crepe tra le rocce. Sono sicuro di non aver percorso questo canalino e con circospezione cerco di evitare, aggirandoli, alcuni salti rocciosi. Il passare del tempo ha smesso di procedere secondo le lancette dell’orologio, quando la pendenza sembra attenuarsi, quasi annullarsi. Devo essere nei pressi del valico, perché la violenza della bufera non accenna a diminuire, anzi le raffiche di vento si fanno più rabbiose, come in uno spazio aperto tra due versanti. Mi fermo di colpo, conscio che in questo momento l’intuizione dell’orientamento è più che mai essenziale. Nessun segno sulla neve, non una roccia, nemmeno un sasso. In piedi come un pupazzo di neve cerco di riflettere. Se mi spostassi anche di un solo passo, so che perderei l’unico elemento certo: quello di avere la montagna alle spalle. Altre cognizioni orografiche non ne posseggo, è la prima volta che calco questi luoghi. D'altronde la carta è inservibile senza la bussola che, ovviamente, in questo momento riposa in un cassetto. Le orecchie e il naso soprattutto, esposti al vento sono quasi insensibili, ma in movimento non sento assolutamente nulla anzi, sotto i vestiti sono in un bagno di sudore. Guardo l’orologio: sono le tredici passate da poco. Ho ancora diverse ore di luce, ma non posso rimanere inattivo, perché comunque tornare giù non sarà uno scherzo. Faccio qualche passo attentissimo in diverse direzioni, tornando subito al punto di partenza. Questi monti hanno versanti complicati e grandi spazi lontani da centri abitati, con lunghe dorsali frastagliate, valloni selvaggi e fitti boschi: perdersi qui significherebbe peregrinare per giorni, e in severe condizioni ambientali......    non lo auguro a nessuno!

Un terreno ritenuto generalmente piatto, nella nebbia fitta si rivela tutt'altra cosa: collinette, vallecole, buche, che la mancanza di visibilità sembra ingigantire. Mi fermo accanto ad una roccia deciso ad attendere una schiarita. Apro lo zaino e passo in rassegna il contenuto: non v’è da essere allegri. Chi avrebbe immaginato un cambiamento del tempo così repentino?! Indosso la giacca a vento, mando giù un dolce; il contenuto della borraccia è un compatto pezzo di ghiaccio. -”Se devo passare la notte qui, pazienza, domani la tempesta sarà placata”-; ma dopo appena dieci minuti, con le membra già irrigidite, mi scuoto: sarebbe una dura notte da passare!! Sento così nascere sommessa una nuova consapevolezza: -”in qualsiasi posto, comunque giù!”-. Non avverto stanchezza e il freddo è stranamente ancora sopportabile, anche se penso che in condizioni normali, in città, starei già battendo i denti. Improvvisamente mi torna in mente di non essere solo sulla montagna. Franco e Alfredo dovrebbero essere sulla via normale ad attendermi; questi erano gli accordi. Chissà dove saranno?! Sistemo lo zaino e mi avvio senza pensare.

Tutto resta immutato, finché dopo aver vagato verso quella che ritengo sia la direzione giusta, una macchia colorata cattura la mia attenzione: una piccola banda di minio rossa, su un sasso che spunta dalla neve. Con visibile emozione mi giro intorno, guardo attentamente nel ristretto campo visivo: nient’altro, la neve è dura come pietra! -“Sono sulla buona strada, da qualche parte deve esserci il bosco; se solo si aprisse un attimo!”- Ma di schiarita non v’è ombra! Continuo a vagare con cautela per non perdere quell’unico segnale, ma niente da fare, il terreno è uguale dappertutto, amorfo, senza caratteristiche; a tratti sembra salire di nuovo, allora torno subito indietro. A momenti mi sorprendo a voltarmi indietro, con l’impressione che qualcuno mi stia osservando; che strana sensazione!! Quanto tempo sarà passato? Non so! Ricordo soltanto che dentro cresceva sempre più prepotente la smania di far presto, di andare via: un’impazienza di movimento che mi coglie ancora, sempre, anche a distanza di anni, quando sono solo e alle prese con qualcosa di impegnativo: io e la montagna. Quel sentimento di rispetto e timore per questo ambiente, per questi spazi, che travalica il senso del tempo, dove la coscienza dell’essere si misura con un’atmosfera solenne e grandiosa capace di riportare la mente ad esperienze di emozioni ancestrali. Non è la fuga, il panico incontrollato, ma una sorta di timore reverenziale, una reazione automatica al pensiero che la montagna non tollera oltre presenze estranee.

            Solo!

Dalla nebbia emergono pochi rami scheletriti, poi più distinta e solida è la presenza di alti tronchi di faggio, uno, due, tre,.....è la fascia oscura del bosco che si palesa. - “Sono sulla strada giusta!”- Provo a chiamare, ma la voce afona non ha la minima eco nell’aria rarefatta. Non un rumore, solo il fruscio della neve che viene giù dal nulla, a grandi fiocchi. Il bosco è silenzioso, irreale e tra gli alberi curvi sotto un pesante manto bianco l’atmosfera si fa inquietante. -“Sono solo!”- e mille pensieri si accalcano nella mente. Il cuore batte forte e il respiro sembra materializzarsi in volute dense come quelle di una macchina a vapore. Cammino sul far del bosco, indeciso. Nulla che possa indicarmi una direzione e i boschi delle nostre montagne sono veri labirinti: grandi e fitte estensioni di faggeta che ricoprono i fianchi dei rilievi e le profonde valli, fin negli angoli più reconditi e impervi. D’improvviso, come un raggio di luce che raggiunge il fondo di un abisso, una fessura si apre nella cappa compatta della nebbia, lì in fondo tra i tronchi degli alberi; si allarga, diventa una crepa, un buco, uno squarcio, dove pennellate di azzurro lottano tra turbolenze e masse d’aria bianche, grigie, oscure. La luce sembra sopraffatta, poi con un guizzo veloce riappare tra nuvole sfilacciate che corrono come treni. -“Che sia una schiarita?”- Anche parziale sarebbe risolutiva, sono ore che vago in questo tunnel, avvolto da vapori e isolato al mondo esterno!

Mentre guardo imbambolato la scena, laggiù, oltre la cortina degli alberi, forme indistinte in colori sbiaditi prendono forma. Non so distinguere, sono troppo lontane, molto in basso, probabilmente a valle. E in un attimo, prima che tutto torni a chiudersi, vedo del chiarore, una forma sinuosa ma netta: -”è un sentiero, ...no, una larga sterrata!”- Finalmente un indizio, e nel momento stesso che faccio queste considerazioni una frenesia mi prende: devo scendere! Sento la tensione alla radice dei capelli e un fiotto di adrenalina disciogliersi nelle vene, nella testa, nel corpo. La scena, come la visione in una sfera magica, svanisce, ma io un attimo dopo sto già varcando la soglia del bosco, muovendomi con rinnovato vigore. Il manto nevoso, si fa difficile: più molle, a volte inconsistente, tra roccette e radici. Gli alberi sono fitti e la pendenza sembra accentuarsi rapidamente. D’istinto seguo la linea di una valloncello che presto si trasforma in un più stretto impluvio. I ramponi diventano scomodi nel sottobosco: rampicanti, liane e rovi, spuntano dalla neve e pendono dai tronchi in un viluppo fastidioso. A tratti spuntoni rocciosi emergono dalla neve.

E’ facile procedere ma faticoso, oltretutto il terreno s’impenna ancora. Qualche saltino roccioso si confonde tra le radici contorte degli alberi, la neve si mischia alla terra. Mi giro faccia al pendio e usando arbusti e tronchi come appigli procedo all’indietro. Respiro affannoso e il sudore mi imperla la fronte e cola sugli occhi. Non voglio fermarmi, neanche pensare, voglio solo procedere spedito in questa discesa che sembra interminabile. Tolgo i ramponi inutili sulle rocce e impugno la piccozza. Gli scarponi rigidi, scivolano sul muschio e sul fogliame marcio, pianto la becca nella terra intrisa d’acqua, nelle fessure della roccia e mi calo, piano, contorcendomi tra rami e radici. Questi muretti non superano i due o tre metri, ma il vallone seppure alberato si è fatto ora più incassato. Non riesco a pensare, solo ad agire, ma devo impormi una fermata. Guardo in alto il tratto percorso e uno scoramento mi assale: come farei se dovessi tornare indietro? Quella che sto scendendo è una vera e propria forra, una delle innumerevoli, così anonime e prive di caratteristiche, che incidono i versanti più selvaggi di queste montagne. Impluvi ripidissimi, scavati dallo scorrere continuo delle acque meteoriche, a volte interrotti da salti rocciosi imprevedibili o destinati a morire in piena parete. Al solo pensiero sento lo stomaco chiudersi in uno spasmo. Non c’è la farei mai a ripercorrere lo stesso tratto in salita, sarebbe una fatica immane, per tornare poi, nelle grinfie della tempesta! Come posseduto da inspiegabile furore continuo a scendere.

Concentrato sui movimenti riesco a mettere a fuoco solo il terreno immediatamente innanzi, per il resto ho dimenticato tutto, potrei essere impegnato su una parete precipite dei Tepuy, in piena foresta amazzonica, farebbe lo stesso: questa non è arrampicata, ma acrobazie da cercopiteco! Nei salti più alti, avvinghiato a rami e liane mi lascio scivolare verso il basso, fino a toccare terra con la punta dei piedi. Sono fradicio e ricoperto di fango, ma perdo quota rapidamente. Mi accorgo di muovermi determinato e meccanicamente, come un automa; mentre la sensazione che qualcuno segua le mie peripezie è ora più nitida. A momenti ho l’impressione di osservare io stesso la scena dall’esterno, un po’ dall’alto, ma non troppo discosto, come se una parte di me fosse separata mentre il corpo continua a muoversi con il “pilota automatico”. La neve è quasi poltiglia e il terreno ingombro di foglie e fango dappertutto, insidiosissimo. Impossibile non scivolare, fortunatamente la vegetazione offre sempre buoni appigli. Non ho sete, né fame; non tocco cibo da più di otto ore. Ingollo una pasticca di Enervit, poi riprendo la discesa: l’importante è che ora abbia una meta. Ma se un ostacolo mi sbarrasse il passo improvvisamente?...non oso pensarci, scaccio subito il pensiero anzi, avverto come una sottile premonizione che tutto finirà per il meglio. Questo ottimismo lo sentivo intorno a me, o forse a distanza di anni è solo il ricordo che vela le angosce di quei momenti. Comunque, sono riuscito ad uscire da quel postaccio solo grazie a quella che all’epoca ritenevo discreta conoscenza delle tecniche di arrampicata; a nessuno verrebbe in mente di cacciarsi in un luogo simile!

L’inclinazione del pendio sta diminuendo; ciuffi d’erba rinsecchita spuntano dal terreno. Mi giro faccia a valle e con estrema cautela scelgo il terreno ad ogni passo. La forra sembra aprirsi e offrire qualche via di fuga sui lati. Sono indeciso: è conveniente, dove possibile, continuare a perdere quota il più rapidamente possibile, anche se ora il bosco sembra farsi meno fitto. Guardo l’altimetro: 1300 metri. La vetta della Meta è a 2242, sono sceso molto in basso, ma la perturbazione avrà sicuramente fatto precipitare la pressione. Più facilmente continuo a scendere nel canale ora erboso, senza neve. La pendenza si fa’ modesta e provo un senso di sollievo a sentire le difficoltà ormai alle spalle, non deve mancare ormai molto al termine di questi scoscendimenti e con essi la fine di questa brutta avventura. Su entrambi i lati vedo aprirsi larghe cenge erbose che invitano ad uscire su terreno più uniforme. A questo punto nonostante i guai riesco a cogliere ugualmente la bellezza del bosco, con magnifici faggi svettanti su uno spesso tappeto di foglie. Nel momento in cui rifletto se e verso quale lato uscire, ho già la soluzione nella testa, un pensiero sottile che si impone ripetitivo: -”vai a sinistra!....vai a sinistra!.....vai a sinistra!....”-; e nell’istante stesso in cui supero il bordo dell’impluvio per uscire su pendio aperto, penso a come sia stato facile prendere questa decisione, come fosse venuta dall’esterno, estranea alla mia volontà. E dire che le  possibili direzioni, da qui, sembrano avere tutte le stesse identiche caratteristiche!!

Scendo velocemente fra gli alberi con la gioia nell’animo: sono fuori, anche se dovrò vagare un po’ per orientarmi. -”Chissà dove saranno Franco e Alfredo; magari sono scesi senza problemi, forse saranno preoccupati per me!”- Vedo una radura tra gli alberi, supero un ultimo muro di terra e tocco finalmente le ghiaie di un sentiero. Mi guardo intorno: sono atterrato in una sorta di area attrezzata. Un silenzio irreale contrasta fortemente con le immagini dei tavoli, le panche, i cerchi dei fuochi, le fontanelle e i viottoli; qui d’estate devono esservi canti e grida, suoni e movimenti di un’umanità rilassata e spensierata. Ora la scena è carica di malinconia: tra la nebbia e l’acqua che gronda dai rami degli alberi il senso di solitudine e di abbandono è forte.

Non conosco il posto, la stradina porterà pure da qualche parte, ma quale direzione prendere? Eventuali paesi devono essere più a valle! Ma dove? Intanto piove con insistenza e l’aria è gelida. Guardo l’orologio: sono le 15.00 passate da poco, devo sbrigarmi. Tiro fuori la mantella impermeabile, mi copro e sto per avviarmi, quando rivolgo un ultimo sguardo alla montagna invisibile. Tra la nebbia solo la fascia basale è visibile, scura, fitta di alberi. Resto allibito: nella traiettoria del marcato impluvio appena disceso, una parete rocciosa compatta e verticale, alta all’incirca una cinquantina di metri, taglia la montagna trasversalmente, interrompendo improvvisamente il pendio! Se avessi continuato nel canale o anche preso a destra, sarei finito in pieno sull’orlo del dirupo!! -”Incredibile!”- penso, ma non ho parole per descrivere lo stato d’animo di quel momento. -”Cosa avrei fatto?”-......non so dirlo. Probabilmente a causa della forte pendenza e la presenza dell’erba e degli alberi avrei scorto il pericolo solo all’ultimo momento....... Sono costretto di nuovo a scacciare pensieri oscuri, ma solo adesso sento di ripiombare di colpo nella realtà; avverto come una porta chiudersi alle mie spalle e con essa svanire quel senso alterato di percezione che mi aveva guidato fino a pochi minuti prima. La stanchezza e la solitudine adesso, pesano come macigni quando m’incammino.

            Il ritorno

I passi sulla ghiaia suonano irreali, ma le emozioni e le sorprese non sono finite. In questo posto così lontano da tutto, in una giornata davvero inclemente, un ronzio sommesso fora il silenzio. Aumenta di tono e riconosco il rumore di un’auto che procede sotto sforzo. Non riesco a capire da quale parte provenga e mentre sono fermo in mezzo alla strada la vedo apparire nella nebbia. La scena deve essere surreale ed enigmatica, quando mi muovo parandomi davanti al muso dell’auto; perché i volti che sbirciano dietro i finestrini sono sorpresi, quasi intimoriti. In effetti nella nebbia, la mia figura avvolta in un ampio poncho, con il cappuccio abbassato fin sugli occhi e un’enorme gobba sulla schiena per via dello zaino, costituisce una visione inquietante, nel contesto del paesaggio. Altrettanto assurda deve sembrare la domanda da me rivolta, circa il luogo ove mi trovassi. Lo stupore alla mia affermazione di provenire da una località dell’Abruzzo, dall’altra parte della catena montuosa, è pari allo sconcerto da me provato nell’appurare di essere nel Lazio, in provincia di Frosinone. Settefrati, Picinisco, Val Comino, sono nomi di paesi e località, all’epoca, a me completamente sconosciuti!

Il seguito è un susseguirsi di informazioni ed impressioni che, finalmente seduto nel tepore promiscuo dell’auto, scambio con i miei occasionali quanto insperati ospiti. Sento i muscoli rilassarsi e la tensione sciogliersi. Negli ultimi guizzi di luce di un tramonto livido, i riflessi sull’asfalto bagnato sono poveri dettagli di un paesaggio avvolto in un’atmosfera misteriosa.

Nelle ore che seguiranno, altri imprevedibili eventi ritarderanno non poco l’esito di questa piccola odissea, ma infine sul treno che mi riporta a casa, lo scompartimento è vuoto; con un tempo simile chi ha voglia di mettersi in viaggio! Solo, disteso sui duri sedili di legno, chiudo gli occhi e lascio scorrere i pensieri: l’esperienza agghiacciante della tormenta, 900 metri di arrampicata fuori programma, la traversata di una montagna, il ritorno scavalcando due regioni, la sensazione confusa di avere sconfinato in un’altra dimensione. Tutto questo poi sull’Appennino!!....

Ed è il ritorno finalmente: quell’emozione grande e struggente, che ripaga in breve dalle pazzie e dalle insensate sofferenze. E` forse il valore più vero, intimo, che consente dopo ogni scorribanda di sentirsi rigenerati, nuovamente arricchiti e pronti per attraversare con umiltà ben altri sentieri nella vita di ogni giorno. Apro la porta di casa, guardo l’orologio: le 2.00 antimeridiane del 22 dicembre, sono in movimento da venti ore e solo in questo istante realizzo che è “entrato l’Inverno”!

Sotto la doccia l’acqua caldissima scorre copiosa.....il resto è cronaca quotidiana.

                                                           © Giancarlo Guzzardi