I Racconti della Montagna

A c q u e   d i a c c e

“ ...la sua sostanza cede alle rocce che la incanalano,

eppure la sua forma sopravvive alle rocce che

dirigono e ostacolano il mio cammino.”

(Vikram Seth - Autostop per l’Himalaya)

 

            CHIARA, FRESCA...          

L’Acqua, finalmente!... Acqua che si fa strada in minuscoli rivoli, tra muschi rigogliosi e fioriture di Parnassia. Le fessure nelle rocce essudano un  umore fertile che distendendosi ricopre la pietra di un fine velluto, del colore cangiante dal verde marcio al nero.

        Acqua che stilla goccia a goccia, lì dove la pietra si dispone in pieghe orizzontali, piccole cornici, accenni di soffitti. Altre pieghe, fessurine insignificanti, la portano via per disegnare una ragnatela di sottili fili argentei che, quando il sole fa capolino tra le fronde ombrose, si fanno brillanti mentre avanzano, esitano, si affaticano nel procedere, apparentemente vagano senza una meta.

        Acqua che sgorga dalla dura pietra e nello zampillare scava con tenacia un percorso tortuoso, imprevedibile, trascinando con sé sabbie e limo, granelli e pietruzze: acqua che muove le montagne!

        A tratti la roccia lascia il posto alla terra, scura, grassa che si imbeve a sazietà e nutre questa vegetazione copiosa, dove la ricerca della luce è regola primaria di sopravvivenza, ad ogni latitudine. La presenza del prezioso liquido rende il bosco un’orgia di forme che in infinitesime sfumature di verde, cresce, sale, si arrampica, si aggroviglia e contorcendosi ricopre ogni spazio a disposizione, lottando e fagocitando, riproducendosi e decomponendosi, creando a sua volta humus e nuovo nutrimento per la terra.

        Gli ampi rami dell’Abete bianco, alto, solenne è costellato di festoni madidi di acqua che la nebbia densa scesa lentamente sulle pendici dei monti, posa ovunque creando uno stillicidio che ad ogni ricomparsa del sole si scioglie in sostanza eterea pronta per tornare nel cielo sotto forma di nuvole. Altre specie arboree quali il Tasso contrastano la caratteristica monospecifica del Faggio, arricchendo l’ambiente e rompendo la monotonia delle forme, come le arcate di una grande cattedrale che si innalzano poderose dal suolo per affinarsi e perdersi in alto, in un punto imprecisato della volta arborea. L’acqua gocciola tra i rami fitti e scivola lungo un garbuglio di liane ed Edera che ricopre con ricami e passamanerie i tronchi degli alberi. A terra uno spesso tappeto di Felce ed Asplenio maggiore; tra i massi e gli anfratti la Capelvenere cresce fitta insieme all’Aconito giallo.

        Il terreno a intervalli si fa fangoso e il sentierino -appena una traccia finora- si perde nella vegetazione lussureggiante. Nel bosco alto e rado l’atmosfera è austera ma non silenziosa: il gocciolio e il ruscellamento lieve dell’acqua si moltiplica ed amplifica sotto la volta naturale, a creare un concerto musicale dove ogni singola goccia è una piccola nota partecipe del tutto. E questo canto sommesso, tra il fruscio dei nostri passi nello spesso tappeto di foglie e il cinguettio degli uccelli, sembra aumentare di momento in momento, in modo impercettibile ma costante.

        Ai lati del vallone alcuni fossi incidono i pendii ripidi del monte, aprendosi la strada nella tenera arenaria che si sfalda in belle forme geometriche di lastroni a spigoli taglienti. Ruzzolando giù per i gradoni l’acqua gioca a rimpiattino, scoprendosi e scomparendo tra i sassi; nei tratti in piano si fa incerta, girando su se stessa e scavando parate e piccole marmitte dove il liquido limpido ha il colore del cielo. Intorno si avverte il lavorio incessante di mille e mille rivoli che scorrono cercandosi, e trovandosi si uniscono acquistando nuovo vigore, ma non riescono a sottrarsi alla forza di gravità che li spinge verso il basso, inesorabilmente.

        Sbuffi di nuvole grigiastre tornano a intervalli a nascondere il sole, mentre il bosco si apre in piccole radure dove l’acqua ha portato via anche il più piccolo granello di terra, lasciando a nudo la roccia pulita e chiara come un osso scarnificato. Sfogliate in lastre sovrapposte larghe bancate di roccia pavimentano ora il fondo del vallone, accogliendo sulla superficie dolcemente inclinata una colata fluida di liquido cristallino che scivola silenzioso, aderendo perfettamente alla pietra calda e granulosa. Non una goccia sembra perdersi nella discesa; la costituzione del suolo non lascia spazio a fenomeni di carsismo e l’acqua, pressoché totalmente, scorre alla luce del giorno.

        Entriamo a piedi nudi nell’acqua, risalendo facilmente ai lati dello scivolo poco inclinato: l’acqua spumeggiando s’infrange gradevolmente sui piedi accaldati e il senso di refrigerio è grande. A tratti i raggi del sole illuminano esaltandolo il velo d’acqua che senza ostacoli scorre dolcemente, e mai come in questo momento avverto forte la sensazione di piacere estetico e sensuale che ricevo, ammirando il connubio tra questi due elementi: l’acqua e la roccia, in natura sorprendentemente così diversi.

        Torno con il pensiero alle riflessioni a cui Vikram Seth s’abbandona, a migliaia di chilometri di distanza da qui, anch’egli assorto nella visione sul greto di un torrente di montagna: “...rifletto sul perché rimaniamo ad osservare l’acqua (...) con così grande attenzione. Sembra un’attitudine perversa, quando la terra è molto più colorata, multiforme e varia. E` semplicemente perché, credo, l’acqua si muove, mentre la terra è statica, o piuttosto perché i suoi movimenti, lo spuntare delle foglie, il movimento della superficie terrestre, sono impercettibili. E` questo movimento visibile dell’acqua (...) a rendere compatibile la purezza di un elemento uniforme con il cangiante impulso della vita...”.

        Questo andare per boschi, confortato da insolite abluzione, rende al cammino un sottile piacere, ora che la stagione piena trasforma questo ambiente in una gigantesca serra. Il calore si sprigiona direttamente dalla terra umida e l’aria si fa pesante, quasi irrespirabile. Saltando di sasso in sasso il percorso attraversa ancora una volta il torrente spumeggiante, per portarsi su una esposta cengia scavata nella roccia, a destra sul vallone. Con la fronte imperlata di sudore e la camicia fradicia sotto lo zaino, traversiamo con circospezione alti sul torrente, ora occultato alla nostra vista. Il rumore dell’acqua si attutisce, sembra allontanarsi, ed è il momento giusto per raccogliere i pensieri ed osservare. Il bosco sta diventando fitto; un intricato sottobosco di arbusti ricopre completamente il terreno, interrotto solo da sottili varchi dove corrono le piste misteriose degli animali che si perdono nel folto. Macchie di colori forano il manto verde e le corolle vermiglie del Lilyum Croceum o Giglio di S. Giovanni, sembrano rubini dimenticati all’ombra fresca degli alberi. L’ambiente emana una seducente atmosfera di integrità che si coglie nell’aria sospesa. Ci guardiamo in silenzio visibilmente impressionati, scrutando tutt’intorno come in attesa di qualcosa. La sensazione è forte e l’idea che occhi selvatici accuratamente celati tra il fogliame possano osservarci, ci solletica non poco.

          Il terreno prende a salire ripido, lasciandosi definitivamente alle spalle il fondo del fosso. A momenti tra i rami dei faggi si apre uno squarcio su piccoli dettagli del panorama. Siamo saliti parecchio ed il costone domina dall’alto una vasta porzione del territorio circostante: fitti boschi ricoprono i fianchi della montagna che precipita scoscesa nel vallone, dove invisibile scorre sinuoso il corso d’acqua. Ma la visione è offuscata dalla calura estiva che rende l’aria tremolante e opaca. Gonfie nubi si trascinano pigre nel cielo: sicuramente verrà giù la pioggia!

        La vegetazione torna a chiudersi e il percorso, appena uno spiraglio tra le alte felci, richiede attenzione quando si avvicina alla costa che precipita nel fosso. Mentre su un poggio erboso fotografiamo alcuni splendidi esemplari di Giglio Martagone il rumore d’acqua che s’infrange torna a farsi insistente: la nostra meta è vicina e la fatica inizia a farsi sentire.

        Poche altre svolte sulla china erbosa e sbuchiamo su una costa libera dalla vegetazione che, isolata ed aerea, spazia tutt’intorno. Non appena ci affacciamo nel vallone chiuso a monte da un anfiteatro, una leggera brezza fresca ci investe improvvisa, insieme al rumore di acqua, molta acqua, che precipita. Sull’altro lato del vallone, quasi alla nostra altezza, tre scie bianche solcano la china del monte contrastando fortemente con il verde cupo del bosco fitto: tre cascate di acqua bianchissima, poco discoste l’una dall’altra, schizzano fuori direttamente dalla montagna e si infrangono con violenza in una caotica fossa ai piedi della parete, dopo aver superato un salto di parecchie diecine di metri. Una in particolare, la principale, dopo aver saggiato il percorso con numerosi fiotti, si riunisce in un’unica colonna, precipitando a valle senza più sfiorare le rocce. Le altre, semplici diramazioni, sembrano quasi scivolare lentamente giù, lungo i gradoni rocciosi, formando piccole scie argentee che con ghirigori e virtuosismi assolvono al ruolo di ameni ritocchi estetici. La scena sembra stagliarsi su un grande schermo cinematografico, sospesa nel vuoto, ma così vicina da toccarsi quasi con mano. Ogni altro movimento è azzerato, come congelato, eccetto il fluire perpetuo dell’acqua. L’impulso di fermare sulla celluloide la scena è frustrante e allora, con il fiato sospeso, nel rumore assordante che copre ogni cosa, restiamo in silenzio ad ammirare la visione che si erge di fronte, rapiti dal biancheggiare delle acque che scorrono via a velocità impressionante e dal fragore insopportabile, ripetitivo, che al limite dell’ossessione poi, svanisce come per incanto trasformandosi in un suono complessivo: una gigantesca nota cosmica che suona un po’ come il sacro ÔM degli Indù.

            E` l’inizio di un viaggio; un viaggio mentale che allontana dalle gioie e dalle pene della vita di ogni giorno. Staccare la spina, chiudersi una porta alle spalle, sognare, evadere: tutti luoghi comuni per spiegare quella sensazione profonda  che a volte ci prende quando, proiettata fuori dall’involucro corporeo, la nostra “consistenza” sembra ridursi a puro pensiero. E` questo il momento in cui sentiamo di essere più vicini a quell’essenza totale che sempre gli Indù, nella loro sapienza millenaria, chiamano Brahman.

            Un viaggio lungo dunque, che promette mille peripezie e non poche sorprese, come quello delle molecole d’acqua all’interno del grande circo magico della natura. Un cerchio che si chiude, come nel divenire dell’esistenza. Ciclo di vita e di morte ed ancora rinascita, che si ripete all’infinito. Filosofia questa, quanto mai distante dalle convinzioni che reggono il nostro quotidiano. Solo le manifestazioni grandiose e impressionanti della natura, anche se per un attimo, riescono a far breccia nella spessa corazza dei nostri assiomi, senza i quali daltronte, l’esistenza umana sarebbe insopportabile. Il Pensiero: questo miracolo misterioso capace di innalzare al di sopra di altri esseri viventi del mondo animale, ha inevitabilmente allontanato l’Uomo dalle grazie degli Dei; questo è scritto nei miti delle origini di tutte le antiche civiltà!

        L’enigma dell’esistenza aspetta ancora i risultati di questo viaggio interiore: ritrovare quel rapporto intimo con la materia universale perso durante il cammino della Vita, molto, molto tempo fa’.

        Le gocce di acqua, prima o poi, tornano all’oceano, noi lentamente ci avviamo ai piedi della cascata.

                                                                                                     Giancarlo Guzzardi - © diritti riservati

 

“L’acqua è una cosa viva. Deve essere tranquilla e profonda, deve stendersi ampia, deve circolare attorno, deve avere corpo e sostanza; deve rompersi in spruzzi e schiuma, in schizzi e barbagli di luce; deve essere viva di fresche sorgenti, deve avere volume sufficiente a raggiungere una grande distanza; deve scendere in cascate dal cielo e rompersi nel colpire la terra al di sotto; deve avere un morbido pallore nei giorni nebbiosi e splendere di mille riflessi in un mattino di sole (...).

                Fiumi e torrenti sono le vene, il sangue di una montagna, la vegetazione è la sua chioma, nubi e nebbie sono la sua espressione. Perciò una montagna diventa viva grazie all’acqua, lussureggiante di alberi e cespugli, e le nubi le danno la grazia.”

                                                                                  Kuo Hsi (artista cinese dell’XI sec. D.C.)