I Racconti della Montagna

L'ultima via d'inverno

Ci sono situazioni in cui gli eventi si sviluppano come se davvero fossero tasselli di un grande puzzle, impossibile districarne uno senza coinvolgerne altri.

Con la vista annebbiata dalle lacrime, posso vedere d’infilata sulla parete speroni e pilastrini ergersi in tutta la loro verticalità. La montagna, bianchissima, impiastricciata di neve ghiacciata spruzzata dal vento, si protende come la prua di una nave in un mare ribollente di nebbie e nuvole basse. E’ una freddissima e tersa giornata di febbraio e il Monte Sirente torna più che mai a rievocarmi l’immagine di uno scoglio di ghiaccio nella piatta solitudine dell’artico.

         Il dolore lancinante alle dita è atroce, sembra voglia tirarmi fuori fin’anche l’anima dall’estremità delle mani. Ogni volta va sempre peggio, ai limiti della sopportazione. Un misto di rabbia e impotenza quella che provo; la bocca si apre per gridare forte, ma resta solo un flebile lamento quello che fuoriesce dalle labbra. Nel silenzio disturbato solo dal pulsare forte del cuore e dal respiro affannoso, l’aria gelida sembra bruciarmi i polmoni.

         Piegato in due a, appeso ad un cordino passato in un chiodo precario, aspetto che la crisi passi come sempre e mi lasci finalmente godere di questo momento. Ho nella testa mille pensieri veloci come treni. Chiudo gli occhi un attimo, spinto da un desiderio ancestrale di richiudermi a guscio, per non vedere, non sentire, per ritrovare dentro di me nuove e più forti energie. Il mondo tangibile in questo momento è qualcosa di indefinito, forse solo un fazzoletto di neve impigliato miracolosamente in una realtà verticale. La solitudine, quella profonda dell’essere, mi appare in tutta la sua grandiosità.

         Ricordo uno ad uno i momenti e le situazioni in passato in cui la “bollita” alle dita delle mani sembrava volersi trasformare in una punizione divina; un prezzo scontato da pagare in inverno, quello per aver osato infilare le mani tra le pieghe della montagna. Nulla però che valesse la pena della rinuncia, ma lunghi inverni e ripetuti micro congelamenti hanno alfine trasformato le mie dita in appendici sensibilissime alla più piccola escursione termica. Il medico è stato fin troppo chiaro a proposito: il sistema di vasi capillari è ormai compromesso. Nessuna cura, l’unico rimedio: difendere il più possibile le mani dai morsi del gelo!

                  Che ci faccio qui?

“Che ci faccio qui?”. Sono rimasto affascinato dal titolo che Chatwin ha dato ad uno dei suoi libri più belli. L’ho fatto mio in più di una occasione; bisognerebbe porsi di tanto in tanto questa domanda nel corso dell’esistenza. Ma ora, forse più di altre, ho la risposta con me.

         Guardo tra le gambe ed osservo dall’alto il difficile tiro di misto salito, un salto di roccia ripida coperta di ghiaccio di fusione. Per quanto tempo questo segmento di parete ha costituito l’oggetto dei miei pensieri?! Chiave unica per continuare verso l’alto e allo stesso tempo per appagare uno smodato desiderio di salire questa benedetta via. Per un tempo che sembra interminabile, ho accarezzato con gli occhi la linea di questo colatoio al centro della parete. I tentativi andati a vuoto, miei e di pochissime altre persone, sono ormai lontani, ma hanno alimentato negli anni un fuoco invisibile che non si è mai spento.

         Un desiderio lungo quanto gli anni trascorsi su questa ,montagna, come se l’idea di salire questo itinerario avesse da sempre accompagnato i voli pindarici dei miei pensieri. D’inverno questa parete ha un fascino in grado di stregare e il nome della via è stato fin dall’inizio tra i recessi della mia mente: Antartica, un freddo, candido mondo di ghiaccio Credo fosse il titolo di un documentario su una spedizione in Antartide, visto tanti anni fa.

         Ciò che provo in questo momento resterà indescrivibile. Le lacrime per il dolore lasciano spazio ad una commozione che gonfia il cuore in singulti liberatori. Mi sento con il corpo e con l’anima su una sommità, la più alta, la più bella, la “mia vetta”. Spesso questa sommità, in montagna e nella vita, coincidono. L’apice di un percorso durato tantissimo o forse solo un unico, intenso momento.

         Resto immobile per un tempo imprecisato, raccolto nei pensieri, poi muovo piano le dita, ora rosse e caldissime. Recupero la corda fino a tenderla sulla sosta in basso, poi infilo le muffole, applico il discensore e scendo. Le pochissime sicure piazzate vengono via troppo facilmente. Libero la corda e salgo di nuovo il salto; in basso, oltre l’imbocco del colatoio, le rocce precipitano per oltre 200 metri fino alla base della parete. Forse è la prima volta in assoluto che salendo in solitaria su questa montagna mi autoassicuro, almeno per un tratto così lungo; come da manuale: un capo della corda fissata in basso, l’altro che fila dall’interno dello zaino. per un tiro così, impossibile non togliere i guanti.

         Accovacciato comodamente recupero la corda per riporla nello zaino. Ripenso a quel gennaio del 1993, quando con Enzo e Remo, al primo tentativo su questa via, sbagliammo attacco, perdemmo tempo, pasticciando slegati su uno zoccolo ostico e scendemmo alle ultime luci del giorno. In quella occasione ero terrorizzato e contemporaneamente ridevo istericamente della situazione, abbarbicati com’eravamo in piena parete, legati in tre ad un esile alberello per scendere in doppia. Sono lontani ora quei minuti nervosi, eppure il senso di libertà inimmaginabile di quei momenti mi accompagnerà per sempre, inenarrabile.

         Quante primavere sono trascorse nella mia vita nel frattempo? Ben altre salite ho dovuto affrontare, dure e a volte inaspettate come un fulmine a ciel sereno; fino a sentire l’equilibrio costruito in tanti anni capovolgersi in un attimo, senza che riuscissi a far nulla, se non a seguire la luce di una flebile fiammella e nuotare boccheggiando per restare in superficie, mentre la parte più fredda e impassibile di me guardava la mia vita dall’esterno, come un film.

         Ricordo in un altro tentativo su questa parete, nel febbraio del 1997, con quanta rabbia ho inveito contro Giulio, che mi aveva costretto a ridiscendere slegato il primo tiro. Letteralmente non aveva capito nulla delle manovre occorrenti o più semplicemente non aveva poi tutta quella gran motivazione per salire, dopo un bivacco notturno e i fumi della vodka nel cervello. Sciolta la mia assicurazione , fumava beatamente una sigaretta all’ingresso di una grotta di neve e si scaldava al sole. Ero furente con lui.

         Ho avuto notizia di tentativi da parte di altre cordate tra il ’94 e il ’97, naufragati credo, semplicemente perché il Sirente d’inverno è una montagna che si riveste di una scorza dura, scontrosa e non si concede mai facilmente. A chi è scettico su questo, basti che si porti ai piedi di questa parete in pieno inverno, per cambiare radicalmente idea. Tentativi infruttuosi quindi, qualche volta contrassegnati da piccoli incidenti.

         A pensarci bene, ancora più indietro nel tempo, un primo approccio con questo settore di parete l’ho avuta insieme a Paolo, scomparso un anno dopo per un banale incidente in palestra. Ne visitammo lo zoccolo basale in una giornata grigia e ventosa del 1984. In quella occasione fotografai una enorme slavina di neve polverosa che spazzava il colatoio in basso. Ma eravamo giovani e troppo inesperti, per pensare davvero anche a un pur minimo tentativo di salita. Ci limitammo a giocare ai piedi della grande parete.

         Quando due inverni fa poi, salendo la “Via dell’Arco naturale”, verificai che un canale invisibile dal basso, permetteva di collegare questa via alla sezione di colatoi sulla parte sinistra della parete, la gioia è stata grande. Mi è stato possibile così esplorare la sezione superiore della via, che conoscevo solo per averla a lungo osservata con il binocolo o su foto scattate con il teleobiettivo.

         Questa intuizione era venuta studiando con attenzione il resoconto, non molto chiaro a dir la verità, della rocambolesca salita di Kulckzjcki e Franceschetti che, nell’autunno del 1969, attaccano la parete per ripetere la storica via su roccia di Cavallini e Vecchietti. Essi perdono l’orientamento e dopo aver tirato avanti a lume di naso, sbucano ormai in piena notte in cima a Punta Macerola. La parte superiore della via quindi, anche se non in condizioni invernali, credo sia stata già percorsa in quella occasione, effettuando l’uscita però non direttamente lungo i canali, ma obliquando a destra e salendo a intuito i salti di roccia lungo il bordo di questi ultimi.

         Sapevo ormai che un solo salto, all’imbocco del colatoio, rappresentava il passo chiave dell’intero itinerario. Lo stesso salto che ora è alle mie spalle.

                   Il concedo

Tentativi infruttuosi quindi, ma quel itinerario era sempre lì, visibilissimo, logico, in un punto dove nessun’altra via era stata salita, la parte più alta e complessa in corrispondenza di Punta Macerala, con strutture rocciose solide e verticali, segnate solo da colatoi strettissimi, a volte di difficile accesso. Salendo all’attacco delle vie che salgono la grande “X” o l’Arco naturale, si passa sotto queste strutture, proprio di fronte a Colle Saraceno, anche se l’inclinazione della parete non permette di vedere dal basso molto più del semplice zoccolo.

         Non ho mai pensato con razionalità di provare a salire questa via da solo, molte ragioni avrebbero dovuto dissuadermi, non ultime la lunghezza dell’itinerario e la difficoltà di uscire dalla via in caso di emergenza. Ma queste paure potevano facilmente dissiparsi, riandando semplicemente con la mente ai momenti in cui da solo in passato avevo sfidato queste stesse incognite. Sapevo che era possibile; molte volte su questa montagna superato il passo chiave, il resto della salita si era dimostrata veloce e relativamente poco impegnativa, ma di grande soddisfazione e in ambiente davvero fantastico. Ma c’era qualcosa a trattenermi, ed era proprio la difficoltà di quel salto iniziale su un orrendo misto. Odio peccare di presunzione.

         E poi, dopo il tentativo invernale sul Camicia, avevo deciso che ne avevo abbastanza di freddo, gelo, neve, fatica da muli e sacrifici smisurati! Dentro di me è sceso una sorta di torpore, qualcosa difficile da definire, se non attraverso la sensazione che mi ha sempre colto dopo una stagione invernale abbastanza intensa di attività: il desiderio struggente di calore sulla pelle di una giornata primaverile, sotto un cielo azzurro e il verde intenso dei prati intorno.

         Potrei dirmi segretamente soddisfatto del tempo passato in montagna nel corso di venti lunghi anni, d’inverno o col bel tempo, più da solo che in compagnia. Quella spinta spasmodica che mi ha proiettato come una molla alla ricerca di momenti intensi, esperienze, difficoltà ed enigmi ma, segretamente anche alla ricerca di un “perché” molto più intimo, si è acquietata in modo naturale, senza che mi rendessi conto, come un’improvvisa grande calma.

         Il desiderio di rivolgere lo sguardo intorno, a tutto ciò che per anni non avevo degnamente considerato, per mancanza di tempo o la fretta cronica tipica di chi arrampica, sembra avermi dato una rinnovata carica, portandomi su sentieri più franchi e meno faticosi, verso altre ricchezze dell’ambiente naturale, spesso a torto adombrate da rocce e ghiacci.

         Ma ci sono situazioni in cui gli eventi si sviluppano come se davvero fossero tasselli di un grande puzzle, impossibile districarne uno senza coinvolgerne altri. Ci sono cose che si realizzano o meno solo quando una serie di altre cose vanno al loro posto, quando cioè è il momento giusto.

         Chissà, forse proprio alcuni eventi nella mia esistenza, più toccanti di un’ascensione in montagna, hanno messo in moto una reazione  a catena ed ogni tassello è andato inaspettatamente al proprio posto. Era semplicemente questo il momento di coronare un sogno accarezzato da lungo tempo, di salire una via che pensavo esistesse ormai solo nella mia testa, di dare vita ad Antartica, effimera traccia evanescente nel continuum spazio temporale.

         Ed era il momento di prendere congedo da questa parete, da questa montagna, dalle sue fragili, seducenti magie in inverno.

         Ero solo, come altre volte su questa montagna. Avevo la mente completamente vuota di pensieri, tesa meccanicamente solo a coordinare i movimenti del corpo. Quei quaranta metri sono stati difficili. Ho provato paura. Ma non potevo tornare indietro, non volevo tornare indietro, solo guadagnare lentamente terreno verso l’alto, un metro alla volta.

         Uscendo nel primo pomeriggio sulla neve bagnata della cresta, a poche centinaia di metri dalla modesta elevazione di Punta Macerala, ho visto la luce intensa del sole togliermi per un attimo la vista, ho sentito il suo calore scaldare una parte profonda del mio essere ed una stanchezza antica impossessarsi di me. Quel momento sarebbe durato meno di una frazione di secondo nello smisurato tempo siderale, così come la traccia lasciata nel canale dietro di me, sarebbe stata presto spazzata via da un soffio di neve polverosa.

         In quel momento ho saputo anche che una porta si era definitivamente chiusa nella mia vita, lasciando fuori affetti, emozioni, sogni irrealizzati.

         Era giunto il tempo del commiato, malinconico, toccante, ma necessario. In piedi sul bordo della cresta di neve sfrangiata, guardo dall’alto della parete, con il sole alle spalle. Le nuvole dense e gonfie, occultano ancora la vista della valle, quasi a sottolineare che il mondo della montagna è una realtà separata.

         So che nuovi orizzonti mi attendono, pieni di luce e di colori, di fiori e calde brezze, grotte, fiumi e cascate e con essi un immenso desiderio di serenità. Ma quella sera a valle non ci sarebbe stato nessuno ad aspettarmi, solo il silenzio della campagna addormentata ed il fuoco nel camino. Sono stato grato al sonno che ha voluto prendermi con se.

Antartica è il nome della via.

 © diritti riservati - Giancarlo Guzzardi