I Racconti della Montagna

dagli Appennini alle Alpi

 Le montagne calcaree dell’Appennino Centrale hanno da sempre costituito un severo banco di prova per gli alpinisti del Sud, uomini troppo distratti dal mare; un “tirocinio” indispensabile e prezioso per un salto di qualità ad altre latitudini. 

Un sobbalzo della macchina mi tira giù con violenza da un limbo sospeso: la nebbia cerebrale di un sogno spazza via luci e ombre che sino ad un istante prima davano consistenza a situazioni impalpabili ed enigmatiche, in grado di riempire quel vuoto pulsante della mente noto ai ricercatori che sondano la psiche umana con il termine R.E.M. (rapid eyes movement).

            Mentre apro gli occhi, lentamente, grosse lacrime calde solcano il mio viso, facendosi strada a balzelli tra perline di sudore, prima di raccogliersi agli angoli delle labbra. Il sapore ha un non so che di salato, come l’acqua del mare! Quel mare all’altro capo della penisola, agli antipodi del nostro viaggio: una distesa di acqua turchina che si insinua spumeggiante tra gli scogli aguzzi di una calle nascosta dalla vegetazione selvaggia di una costa mediterranea. Immagine di estrema dolcezza, da giorni vagheggiata, sublimazione di una idea di inattività e riposo per una mente febbricitante e stanca.

            La perdita di un amore mi ha accompagnato giorno dopo giorno in questo viaggio interiore lungo mille chilometri, di un nastro d’asfalto bruciato dal sole, serpeggiante lungo una dorsale di monti sornioni che guardano il mare, sempre! Un mare radicato nella nostra cultura, ancestrale, che se non ci fosse  bisognerebbe inventarlo e quando non si vede, lo si avverte nell’aria, nella luce, nei colori, nei profumi, nel nostro modo di essere profondamente uomini del Sud. Presenze amiche, essenziali e inscindibili: l’Appennino e il Mediterraneo.

            Come uomini antichi venuti dal mare ci siamo diretti verso le montagne, quelle più lontane, alte, austere che come un baluardo chiudono a nord l’orizzonte della penisola, impedendo un passaggio franco. Montagne temute e riverite, nelle cui pieghe l’uomo ha trovato fin dalle origini rifugio e sostentamento ma, spesse volte nella storia, attraversate e violate da popoli stranieri feroci e inarrestabili, in cerca di terre da predare e facili bottini. Nonostante tutto, le Alpi non hanno mai smesso di costituire geograficamente quella che i romani indicavano con il termine di limes: la frontiera, e come tutte le frontiere a calamitare nel tempo i desideri e le attenzione di anime irrequiete: quelle di guerrieri, pionieri, viandanti, scienziati, cercatori di cristalli, poeti, fotografi e......alpinisti.

            Prostrato e svuotato di qualsiasi sentimento, faccio fatica per tornare alla realtà; chiuso come in un bozzolo a stento avverto intorno a me i movimenti e le voci dei miei compagni, inzeppati come siamo, uomini e bagagli, in una vecchia Fiat 125 nera, con tendine sui vetri posteriori e copertine candide sui sedili, ultimo esemplare forse di una vecchia ammiraglia degli anni ‘70.

            Il morale è alto, dopo questa sortita che ha fruttato al nostro carniere numerosi 4000 dell’arco alpino: un ambiente, per noi venuti dai “lontani” Appennini, ancora sconosciuto e severo. Quel primo avventuroso viaggio lo ricordo sempre, con piacere e nostalgia, ogni volta che il tempo, sempre più avaro di libertà, mi riporta in queste contrade e sorrido, pensando all’innocenza di quei primi passi, verso ciò che per noi all’epoca rappresentava una vera e propria sfida. Mete agognate da un qualunque modesto alpinista, non montagne ma veri e propri colossi, creste aeree, guglie ardite, pilastri compatti, ghiacci infidi, che pian piano l’orizzonte sciorinava dinanzi a noi: il Monte Bianco, il Monte Rosa, il Gran Paradiso, il Cervino, i monti della Val Masino ed altri ancora.

Parete nord del Lyskam e Punta Dufour del Monte Rosa, sullo sfondo il Cervino

            Ma l’inverno passato su e giù a “grattare” sulle rocce corazzate di ghiaccio del Corno Grande al Gran Sasso, a nuotare nella neve delle disorientanti distese della Majella, nelle profonde forre dei monti del Parco d’Abruzzo o in bilico nei canalini effimeri del Velino e del Sirente, ci dava una carica del tutto particolare, quella forse che solo pochi oggi posseggono: la passione di chi è aduso in inverno a salire quei montarozzi di erba e terra dietro l’angolo di casa, che i venti gelidi dei Balcani o dell’Atlantico fanno a gara a rendere inavvicinabili e repulsivi, come gli speroni del Ben Nevis sulle highlands scozzesi. Regno del misto, ostico e poco gradito ai più, dove le tecniche da manuale lasciano spazio solo ad un esperienza affinata sul campo e i “trucchi del mestiere” restano l’unica vera arma per risolvere i mille problemi del momento, sempre presenti, sempre diversi.

            Come passare alle grandi ascensioni, dopo aver inventato improbabili salite sulle rocce poco rassicuranti di tanti “monti minori”; angoli appartati e per nulla frequentati, dove l’occhio indiscreto è solo quello dell’aquila che spicca il volo da un anfratto della parete e la gratificazione è tutta interiore, per aver tracciato una via impossibile che non sarà mai ripetuta. La carica tenace di quanti hanno creduto possibile e senza complessi di inferiorità un alpinismo in Appennino.

            Il torpore, il caldo, le lacrime, tutto mi induce a chiudere nuovamente gli occhi e a rientrare nel sogno, per afferrare ancora per un attimo un volto, una voce, un amore che ormai sfuggono come sabbia tra le mie dita, lasciandomi addosso una malinconia struggente e una tristezza infinita.

            Pensare alla vita di ogni giorno mi da la nausea; non ho voglia di tornare in città, pensare al lavoro e a cento altri problemi quotidiani, di parlare, di vedere gente. Se potessi tornerei indietro, per ripercorrere a ritroso questa lunga strada che giorni addietro ci ha depositato alla base di montagne imponenti, dove bianchi ghiacciai sospesi, incastonati come pietre preziose, brillano di una luce abbagliante su per ripide e scure pareti di roccia. Vorrei tornare a vivere di quella energia pura che solo nell’azione si origina, nell’isolamento di una cerchia dentellata di monti e nel silenzio di anfiteatri deserti, dove il tempo sembra fermarsi e il tumulto dei sentimenti sopirsi.

Monte Bianco: Il Grand Capucin sul ghiacciao del Gigante

            Qui, alla base di giganti di rosso protogino, mi siedo finalmente stanco sulla neve bagnata, piccolo come una formica tra le crepe di un ghiacciaio tormentato. Mi guardo intorno. Il respiro rallenta e si fa fievole; gli occhi si socchiudono nel riverbero della neve. Come per incanto la montagna sembra animarsi; ogni piccola gobba, ruga o crepa inizia a vibrare, corde di un’arpa invisibile. La musica che ne scaturisce ha su di me l’effetto di un incantesimo: una città immensa, dove esili campanili dorati  e torri merlate si proiettano nel cielo come antenne sottili, emerge come per incanto tra i colori pastello di un arcobaleno. Un labirinto di percorsi tortuosi, rampe, scale e pianerottoli, salgono verso l’alto, abbarbicati a pareti lisce e lucide tra pilastri di acciaio brunito.

            Poco distante, nella luce accecante del giorno, un ombra acquista dimensione e spessore. Agita le braccia, poi si allontana lentamente: un chiaro invito a seguirne i passi che sul ghiacciaio non lasciano traccia. Il suono liquido degli scarponi, mi guida come una nenia ipnotizzante in un percorso azzardato tra le fauci spalancate dei crepacci, dove il ghiaccio antico emette lampi di luce verde e blu nell’oscurità degli abissi. Poi, alla base di uno scivolo, qualcuno ancora torna a tendermi la mano, i ramponi prendono a stridere e il ghiaccio frantumato a cantare note acute come il tintinnio di calici di cristallo.

            Gesti ritmici e ripetitivi: uno, due....tre, quattro, come il pulsare del sangue nelle vene e le punte affondano precise nella superficie ghiacciata che ha la consistenza del caucciù, morbida e resistente allo stesso tempo. Quando appoggio la mano libera sul pendio, è quasi con dolcezza che lo faccio, come una carezza, per sentire attraverso il palmo della mano tutta la natura cristallina, piatta e incredibilmente liscia, correre via vertiginosamente verso il basso.

            La becca della piccozza e le punte dei ramponi sono terminazioni nervose che all’estremità degli arti mi tengono ancorato su questa superficie paurosamente inclinata; eppure, mi sento leggero, come in assenza di gravità! Uno, due...tre, quattro: è un piacere voluttuoso quello che avverto, nel sentire gli attrezzi penetrare sicuri, senza resistenza, nella neve dura. Posso voltarmi a sinistra e a destra, posso alzare la testa o guardare in basso tra le gambe per scorgere la stessa algida superficie fuggire verso il basso, dove un oceano bianco come il latte si dispiega a perdita d’occhio fino all’orizzonte e il sole fare capolino dietro lontani speroni bruni, maestosi come le linee di una cattedrale nel deserto.

            Uno, due...tre, quattro: risalire la parete palmo a palmo, metro dopo metro, alimenta in me un desiderio spasmodico di conquista, centimetro dopo centimetro, ma non è un atteggiamento aggressivo, sento la montagna come una cosa viva e affine, con un sentimento fraterno, in una dimensione dove la parete si identifica con l’esperienza di un viaggio interiore. Momenti zen in cui la mente vuota di ogni pensiero è libera da catene e il movimento si fa meccanico e ripetitivo, sottofondo per una sensazione di beatitudine e di simbiosi con la natura intorno.

            Nell’aria rarefatta e cristallina mi fermo, tiro un grosso respiro; devo quasi pizzicarmi sulla pelle per sincerarmi di essere sveglio; quanto tempo sarà passato?! Alzo la testa e tolgo gli occhiali: guardo il cielo profondamente blu, intorno tutto è come fermo. La lunga scia di un jet a propulsione disegna una linea bianca, come una pennellata vigorosa di un pittore insoddisfatto. L’aria è calda ed è un piacere essere qui, esposto ai raggi del sole, per ricaricare le batterie del corpo e dello spirito. Appeso ad una sosta sui chiodi da ghiaccio sento la corda schiaffeggiarmi con un movimento brusco; guardo in alto per vedere in una frazione di secondo Francesco sparire tra aureole di luce, oltre la cresta sommitale, orlata di sbuffi di neve, gonfi come meringhe di zucchero.

            Se non fosse per la posizione scomoda direi che ho dormito! Guardo in basso, seguo a ritroso la linea dello scivolo, fino a mettere a fuoco altre goffe figure abbarbicate alla parete in modo innaturale. Scendo ancora con lo sguardo lungo il pendio ripidissimo fino ad incontrare la bocca della crepaccia terminale e poi il ghiacciaio: orizzontale in maniera assurda. Risalgo di nuovo tutta la parete, lentamente, mentre nella mia testa i tasselli della realtà cominciano a tornare al loro posto, piano piano.

            E con fatica che esco dal torpore per affrontare l’ultima tesa di corda; ma quando infine, superato l’ultimo gradino verticale della cresta calco la neve ancora dura per il gelo della notte, la vetta della Tour Ronde è uno scoglio verticale e isolato, proiettato nel blu puro del cielo. Una piccola frotta di alpinisti di tutte le nazionalità, si accalca intorno alla croce di metallo, simulacro di una spiritualità che non ha confini nel tempo e nello spazio. Il senso di euforia, celato nella fretta spasmodica della stanchezza è ora grande, insieme all’emozione che si rinnova sempre, di trovarsi al cospetto di una magia che non ha parole per essere definita.

            Penso a quante volte dall’alto di una montagna ho ammirato un simile paesaggio, sempre diverso ma così identico nelle emozioni che suscita e la mente torna volentieri alle modeste vette dell’Appennino. Mi manca il Mare, quella linea blu persa nella foschia che chiude a occidente e a oriente gli orizzonti delle terre del Sud; mi manca quel profumo di erbe odorose che porto con me, nelle pieghe dei pantaloni, quando torno a casa, insieme ad un fiore che dia un tocco di colore a queste mie giornate malinconiche. Vorrei che il tempo si fermasse ancora, così, come per incanto!

                                                            Giancarlo Guzzardi

© diritti riservati