MONTAGNE E BRIGANTI

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Le Vie della miseria        Brigante per amore

 3) Le Voci dei briganti

Il brigantaggio post-unitario sul Monte Morrone e

nella Valle Peligna .

        -”Chest sò le voce di’ bregante che revienne!”-

        “Queste sono le voci dei briganti che ritornano” esordisce Nicola, dando un senso alle nostre espressioni stupite e interrogative. Di età indefinibile, il volto solcato dalle rughe del tempo come solchi di un aratro sulla terra riarsa, dall’infanzia sale su questi pascoli stenti dal suo paese natale Sant’Eufemia a Majella, dal quale nel corso di una vita non se ne è mai allontanato così tanto, da non avere sempre un colpo d’occhio sui tetti delle case. Il suo è uno sguardo vigile e penetrante come quello di un falco.

        Gli stessi occhi che ci scrutano al di sopra del naso adunco, quando attorno alle fiamme di un falò guardiamo meravigliati nel buio della notte. Dalle rocce sottostanti l’Addiaccio della Madonna, suoni irreali e inquietanti arrivano alle nostre orecchie, portate dal vento freddo che piega le cime scure dei faggi. Sembrano voci, risate, lamenti che rompono il silenzio della montagna. Probabilmente è solo il vento che gioca negli anfratti delle rocce!

        Diversi anni sono passati da quel bivacco, ma ancora oggi, quando interrogo gli anziani pastori sulle antiche storie dei briganti, avverto la stessa atmosfera di mistero di quella notte di fine estate.

         Su questi monti aspri e desolati abitati fino a ieri dalla miseria più nera, il confine che ha diviso le figure di eremiti, briganti e pastori è stato veramente labile: -”...stetti solo in queste Montagne, e vissi allora miseramente accattando un po’ di pane or da uno, ed or da un altro (pastore)”- dichiara  dopo il suo arresto Croce di Tola detto Crocitto, autentica “primula rossa” per l’esercito sabaudo. Più certe sono invece le ragioni che hanno accomunato le vicende di tanti uomini apparentemente così diversi. Filo conduttore della storia: secoli di rapine e predazioni, angherie e sottomissioni; dei Romani prima, alla conquista della penisola, dei Saraceni poi, alla caccia di infedeli; di Spagnoli, Borboni e Piemontesi, tutti alla ricerca di terre da spartire e governare.

         Frasi indelebili nel tempo sono rimaste come un epitaffio sui monti della Majella a ricordare ai posteri le ragioni di un brigantaggio che sicuramente non è stato, o non solo, fenomeno di banditismo; d’altronde la storia l’hanno scritta poi gli “altri”, i piemontesi, arrivati in queste terre non propriamente in veste di liberatori.

        “Nel 1820 nacque Vittorio Emanuele Re d’Italia. Prima era il regno dei fiori , ora è il regno della miseria.”, recita la frase più bella e significativa incisa su di un masso, oggi noto come “Tavola dei briganti”. Sul calcare chiaro e compatto si mescolano e si sovrappongono nomi di fuorilegge e pastori, date ormai remote con altre più recenti.

         -”Il massiccio della Majella fu teatro, dal 1860 in poi (...) dell’accentuarsi più cruento e determinato del fenomeno del brigantaggio”- scrive Arpino Gerosolimo, attento studioso di “cose meridionali”. -”In breve, fuoriusciti dell’esercito borbonico, insieme a contadini, pastori e carbonai (...) si rifugiarono in zone inaccessibili nel tentativo di ribaltare il corso degli avvenimenti storici, con l’avallo dello Stato Pontificio. (...) Certo la Majella “- continua l’autore -”con le sue grotte, le forre, le boscaglie immense, i suoi canyons, rappresentò per circa dieci anni il rifugio naturale dei briganti, che conoscevano a menadito ogni angolo e ogni segreto della vasta montagna.”.

         Poco meno di una decina erano le bande che infestavano i territori intorno alla Majella, attive dal 1861 al 1867, alcune in particolare si dividevano i versanti occidentale e orientale della montagna. Tutte comunque, in un alternarsi di fusioni e disgregazioni, passarono alla storia con la denominazione significativa di Banda della Majella. Il Morrone, se certamente non rivaleggia in quanto a dimensioni e complessità orografica con la Majella propriamente detta, all’epoca sicuramente non difettava di angoli selvaggi e appartati, dove le formazioni militari regolari, quelle dell’esercito piemontese e della Guardia Nazionale, abituati a ben altri campi di battaglia, certo non ebbero vita facile. E’ la formula vincente della guerriglia, mai venuta meno nel tempo!

         Nei documenti storici quasi mai si fa riferimento a particolari località di montagna o a precisi toponimi e, quando si legge “versante occidentale della Majella”, si deve intendere l’inclusione dei monti del Morrone. Molto spesso invece si rinvengono tra le carte (atti dei processi, circolari amministrative, verbali, lettere) precisi riferimenti al territorio di Solmona e ad altri comuni della Valle Peligna.

Se non offriva sicuro rifugio alle grandi bande di briganti (anche 100 uomini!), il Morrone acquisiva però importante valore strategico per i suoi valichi aperti verso la Valle dell’Orta e il territorio del chietino, dove agivano i capibanda più temuti ed irriducibili: i vari Colafella, Di Sciascio, Valerio detto Cannone, Marino, Scenna.

         Le montagne che fanno da corona alla conca peligna, non ultimo il Morrone, sono spesso menzionate nel numeroso carteggio sul brigantaggio, oggi gelosamente custodito presso gli Archivi di Stato. Nei lunghi verbali della magistratura numerosissimi e pesanti sono i capi d’accusa nei confronti di personaggi più o meno noti che hanno scorrazzato in lungo e in largo in questi luoghi: pastori, contadini, braccianti, figure di sicura estrazione proletaria, coinvolte in quella che storicamente verrà definita “piaga endemica del Mezzogiorno d’Italia”.

         -”Infatti - scrive Franco Cercone, nelle sue interessanti pagine dedicate al brigantaggio in Abruzzo - “ i briganti più temuti nell’autunno del 1861 erano Antonio La Vella di Sulmona e soprattutto Pasquale Mancini, un bracciante di Pacentro detto Mercante, il quale capitanava una grossa banda (...). Quest’ultimo, insieme a Luca Pastore di Caramanico, ben presto emergerà tra le file dei latitanti, evasi, sbandati dell’esercito borbonico e contadini, confluiti nei territori intorno alla Majella. Capeggeranno in breve le prime bande in azione su questo territorio. Le terre nei tenimenti di Pacentro e Roccacasale, comuni a ridosso della montagna, sono oggetto sistematico di omicidi, sequestri, furti ed estorsioni. Ma i capi di imputazione nei primissimi anni dell’Unità d’Italia, quelli cosiddetti della reazione, saranno anche associazione in banda armata, incitamento alla guerra civile, disprezzo delle istituzioni e del Re (V. Emanuele II); reati più volte segnalati nel circondario di Sulmona, Pratola Peligna, Popoli, Pettorano, Campo di Giove.

Nella lunga schiera di nativi che prenderanno la via della montagna vi furono i fratelli Marinucci di Sulmona e il più famoso Fabiano Marcucci detto Primiano di Campo di Giove. Quest’ultimo, fino al 1866, data del suo arresto, montagna dopo montagna portò le sue scorribande dall’aquilano al chietino, dal Molise al casertano. Come tutti i montanari, non difettava di “buone gambe”!

         Solo nel 1870, con la soppressione delle “zone militari” e dello stato di guerra nelle provincie del Centro Sud, si poté dire ufficialmente chiusa la repressione militare del brigantaggio, ....ma non la “Questione Meridionale”! Le bande sono state annientate, l’ordine ristabilito: lo Stato ha vinto, il silenzio scende sui perdenti. Le “gesta” di alcuni tra i briganti più noti e temuti, diventeranno ben presto il soggetto di molte leggende popolari, a guisa di un rapporto di amore-odio, simpatia e timore da sempre espressione degli ambienti sociali più umili: -”i cafoni veggono nel brigante il vindice dei torti che la società loro infligge”-, dichiarava nel 1863 il Generale Govone.

Giancarlo Guzzardi  - Diritti Riservati

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