Flora spontanea d'Abruzzo

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Flora della Majella e del Morrone

Aspetti naturalistici

Un insieme di fattori quali: la posizione geografica (legata ai grandi sistemi montuosi dell’Appennino Centrale ma a pochi passi dal mare), la notevole estensione, l’altitudine elevata, l’orografia complessa e il clima particolare, rendono le montagne della Majella un territorio unico, dalle caratteristiche molto singolari. 

Questa ricchezza si esplica nell’esistenza di una varietà di ambienti naturali dalle diverse conformazioni e peculiarità, scandite con il procedere dell’altitudine e con il variare delle fasce vegetazionali, dal piano basale alle aree cacuminali, dal bosco misto alla faggeta, dai prati aridi alla mugheta, dai valloni ai pascoli d’alta quota, dalle rupi ai brecciai, e poi ancora le gole rupestri, i piani carsici, l’ambiente fluviale. Nonostante la forte antropizzazione delle valli contigue, la montagna ha conservato nel tempo, almeno negli angoli più appartati e inaccessibili, un relativo isolamento che contribuisce a mantenere inalterate quelle caratteristiche di una vera e propria wildland. La grande ricchezza e la notevole diversità biologica della Majella costituiscono un patrimonio inestimabile e pregevole non solo a livello nazionale ma sicuramente europeo. In questo quadro già esclusivo si innesta quello che può considerarsi sicuramente il fiore all’occhiello di questo territorio e che forse più di altre valenze ha spinto alla sua tutela: il patrimonio floristico.

Sulla Majella e sulle montagne satelliti, Morrone, Porrara, Rotella e Monti Pizzi, si rinvengono numerose associazioni vegetali, ecologicamente differenziate, con elementi di provenienza mediterranea, alpina, balcanica, illirica, pirenaica e artica. La classificazione delle specie e l’identificazione nel caso degli endemismi, iniziato già con Michele Tenore agli inizi del 1800, è proseguito con altri botanici quali Cesati e Rigo, fino ai nostri giorni, quando altri ricercatori come Fabio Conti, Aurelio Manzi, Gianfranco Pirone e in particolare Fernando Tammaro, hanno quantificato questo patrimonio floristico in circa 1700 entità. Circa un terzo dell’intera flora italiana; record questo che pone il territorio all’attenzione internazionale.

Molte sono le specie per cui la Majella rappresenta il locus classico, cioè il luogo dove le specie sono state rinvenute per prime e classificate; per questo  molte di esse portano l’appellativo di magellensis. Rispetto all’habitat si rinvengono piante adattate a luoghi con clima caldo, di tipo mediterraneo, o viceversa piante adatte a climi freddi, di tipo nordico. A queste si affiancano specie di provenienza orientale, adatte a climi aridi e steppici. Altre specie sono di tipo relittuale, cioè resti di una flora esistita ai tempi delle glaciazioni e biologicamente sopravvissuta fino ai giorni nostri.

Da questo calderone di entità floristiche, nel corso dei millenni, grazie ad occasionali isolamenti (geografici e quindi genetici), si sono evolute specie a se stanti, rintracciabili solo in precise località dove è avvenuto l’adattamento ad un particolare ambiente e che quindi prendono il valore di endemismi: piante esclusive della Majella o di poche altre montagne dell’Appennino abruzzese. Sul totale del patrimonio floristico, l'11% sono endemismi, 25% sono elementi di tipo orientale, 25% di tipo mediterraneo.

Fasce vegetazionali e habitat

Un’analisi che tiene conto esclusivamente delle associazioni vegetali, in riferimento alle aree da esse colonizzate e alle quote che rappresentano i limiti di questo territorio, permette di tracciare un breve schema che suddivide la montagna in 4 fasce altitudinali, a cui corrispondono precise caratteristiche legate all’ambiente e al clima. Ovviamente, a causa della variabilità riguardante i rapporti ecologici delle diverse associazioni vegetali, tra di esse e con l’ambiente circostante, i limiti altitudinali di riferimento sono puramente indicativi, ma servono a fissare le situazioni in cui alcuni parametri (orografia, meteorologia, esposizione, temperatura, acclività ecc.) determinano l’avvicendamento delle specie vegetali sulla montagna e le loro fitocenosi (associazioni vegetali).

Il riferimento a simile classificazione (puramente virtuale ma dalle reali corrispondenze), non implica necessariamente la relazione con i diversi habitat presenti sulla montagna, che sono degli ecosistemi particolari, legati sì ad una serie di caratteristiche ambientali, ma non per forza condizionati dall’altitudine. Insomma, un particolare habitat può sussistere all’interno di una fascia di vegetazione, ma non è la regola; così come determinate specie vegetali possono rinvenirsi in piani vegetazionali differenti.

Piano basale (o collinare, 300-850 mt)

La fascia pedemontana che, rispetto alla media e alta montagna, potrebbe forse apparire meno interessante e con caratteri peculiari meno appariscenti, è quella che invece ad una attenta analisi si rivela come un vero e proprio calderone dal punto di vista botanico. L’elevata diversità di aspetti vegetazionali, notevolmente condizionati da un clima mite e una meteorologia più o meno favorevole a seconda dell’esposizione, riesce qui a favorire l’attecchimento e lo sviluppo di associazioni vegetali a volte difficilmente rinvenibili in una stessa area. E` questa comunque una fascia dove è possibile rintracciare allo stesso tempo gli ambienti più disparati, dal bosco alle aree rimboschite, dai pascoli alle garighe, dalle zone rupestri a quelle ripariali; habitat che comunque ritroveremo in altri settori della montagna e a diverse altitudini. Vegetazione dominante in questa fascia di altitudine è costituita dai boschi misti di querce dominati dalla roverella. Queste essenze vegetali, essendo adattate ad ambienti aridi e assolati, danno origine ad un bosco abbastanza rado e luminoso, insediato in genere sui versanti meridionali della montagna dove si associa ad alcune specie sempreverdi, come la rosa sempreverde e il terebinto, ma anche al citiso a foglie sessili.

La vicinanza agli insediamenti urbani ne ha causato in passato una estrema degradazione, per cui oggi restano abbarbicati in zone della montagna impervie al limite estremo dei coltivi. A quote leggermente superiori 900-1000 metri si rinviene il cerro, altra quercia presente ai limiti della faggeta, ma anche l’acero. Nelle zone più fresche è presente il carpino nero, che spesso colonizza zone con pendii ripidi e detritici. In questo piano sono oltremodo presenti altre specie come il leccio tipicamente mediterraneo e l’orniello, alberi che prediligono luoghi caldi e assolati ma indifferentemente anche zone più fresche. Quest’ultimo inoltre, insieme al carpino, è specie colonizzatrice dei terreni più degradati e inospitali di questa fascia altitudinale. Grazie alla luminosità e alla struttura rada del bosco, nel sottobosco crescono il caprifoglio, l’asparago, il pungitopo, il ciclamino, il biancospino ed altre piante cespugliose.

         L’eccessivo sfruttamento dei cedui e il taglio del bosco per far posto secoli fa ai pascoli, oltre a ridurre drasticamente la vegetazione ha dato origine a nuovi ambienti, i prati aridi e le garighe, che oggi si alternano ai querceti, dando origine ad una copertura vegetale a macchie di leopardo. Si differenziano tra di loro essendo le garighe una ulteriore degradazione dei primi in cui, a causa dell’eccessiva riduzione dello spessore del suolo, si è avuta una trasformazione in terreno sassoso con affioramenti rocciosi, caratterizzato da una vegetazione arbustiva e cespugliosa, spesso spinosa e aromatica, con cisto di creta, citiso spinoso, santorreggia, ginepro rosso, ginestra, elicriso, borracina rupestre, timo e varie euforbie. A seconda dell’altitudine sono presenti anche la globularia appenninica, la peverina tomentosa, alcune specie di fiordaliso e l’eliantemo.

Piano montano (850-1800 mt)

In questa fascia la vegetazione più diffusa è il bosco di faggio, che alle quote meno elevate si accompagna all’acero, al cerro, al leccio, al carpino e al maggiociondolo. Più in quota, con l’accentuarsi di un clima fresco-umido, il faggio diventa presenza monospecifica e costituisce il limite altitudinale della vegetazione arborea. Anche a queste quote la copertura vegetale non è uniforme, ma piuttosto legata all’esposizione dei versanti; infatti essa si presenta abbastanza rada verso mezzogiorno e fitta in quelle a settentrione, anche dove il terreno è decisamente impervio. Nel corso dei secoli, ancor più che il bosco di quercia, la faggeta è stata sottoposta ad un’intensa attività di sfruttamento da parte dell’uomo, lì dove l’economia delle aree interne di montagna, con il declino della pastorizia, ha vissuto un profondo periodo di crisi e i prodotti del bosco, a iniziare dal legno usato per gli usi più disparati, hanno rappresentato l’unica forma di sostentamento delle comunità locali. Oggi, alle zone soggette a ceduo, lontane dalla struttura originale del bosco, si alternano fustaie a volte di notevole interesse Agli aspetti più o meno uniformi della faggeta, non corrisponde una pari uniformità del sottobosco, dove le essenze arbustive e floristiche, sono legate al tipo di suolo, al clima e all’esposizione. Anche se poco luminoso il bosco di faggio è generalmente ricco di felci e di piante come la Belladonna e l’Agrifoglio. Ai margini delle radure crescono il Giglio martagone e il Giglio di S.Giovanni, insieme alla Peonia officinalis, al Bucaneve e alla Genziana maggiore. Ma il corteggio floristico è ricchissimo e si rischierebbe di fare uno sterile elenco delle specie e sottospecie presenti; per cui si rimanda alle opere specializzate sulla flora della Majella, limitandoci per quanto ci riguarda a compilare una lista in allegato delle entità vegetali da noi riscontrate durante la ricerca, nonché soggetto della documentazione fotografica presentata.

Anche a queste quote i prati aridi (pascoli secondari) sono estesi e diffusi, sviluppandosi fin sulle falde ricche di detriti e con una certa pendenza, alla base dei brecciai. Tra le altre si rinviene qui la Pulsatilla alpina e la Genziana dinarica, il Ranuncolo majellensis e il Tlaspi alpino. Nelle zone incise dai valloni, si fanno consistenti i popolamenti di flora rupestre, ben rappresentata dalla Campanula del Cavolini, ma lì dove le rocce sono soggette a stillicidio di acqua, in luoghi ombrosi e umidi, si rinvengono alcuni tra i fiori più rari della Majella: l’Aquilegia di Ottone e la Pinguicola.

Un habitat del tutto particolare a queste quote è quello dei piani carsici che nel territorio del Parco Nazionale della Majella sono rappresentati dai cosiddetti Altopiani Maggiori, dislocati a sud del massiccio, tra questi e la Valle del Sangro.

Sono costituiti da due unità geograficamente distinte: il Piano delle Cinquemiglia a 1300 metri s.l.m. e i Quarti, praterie più o meno estese, poste alle pendici meridionali dei Monti Pizzalto e Porrara, a 1250/1300 metri s.l.m..

I fenomeni carsici sono qui ben rappresentati da doline, fossi, inghiottitoi, karren e laghetti, e la vegetazione, a causa dello spessore maggiore di suolo fertile e di umidità pressoché costante, si diversifica notevolmente da quella del paesaggio circostante, costituito da prati aridi. Le numerose piante erbacee che per gran parte dell’anno formano un fitto tappeto verde, vengono localmente utilizzate come foraggio. Alcune zone, con vegetazione ancor più differenziata, risulta allagata dopo lo scioglimento delle nevi e, in molti casi, presenta fenomeni di ristagno d’acqua. Particolarmente interessanti sono le specie floristiche che si rinvengono tra le piante erbacee, in molti casi endemiche e rare come il Ranuncolo a foglie larghe, la Veronica scutellata e l’Euforbia sannitica. La sorte di queste, come di altre piante, è fortemente compromessa a causa dell’eccessivo sfalciamento dei campi e del dissodamento per la loro messa a coltura.

Piano culminale (orizzonte subalpino 1800-2300 mt)

Tre sono gli habitat caratteristici di questa fascia di vegetazione: i pascoli, le mughete e i brecciai. I primi, notevolmente diversificati nelle loro caratteristiche a seconda dell’esposizione dei versanti, contendono lo spazio ai brecciai, veramente notevoli specialmente sulla Majella orientale.

La mugheta, presente ormai quasi esclusivamente sui versanti settentrionale e orientale di questi monti, è una formazione vegetale a se stante e costituisce una zona di transizione tra la vegetazione forestale del piano montano e le alte quote brulle e ventose. Tipico ambiente nordico, relitto anch’essa dell’ultima glaciazione, doveva avere in passato un areale molto più ampio, che si è andato via via restringendo a causa dell’innalzarsi delle temperature medie della terra.

La macchia di Pino mugo, fitta e intricata, colonizza zone scoscese e pietrose dove, col suo portamento prostrato, riesce a resistere in modo ottimale al vento, alla neve e al gelo. A volte in consorzio con questo sempreverde si rinvengono il Ginepro nano, l’Uva ursina e il Sorbo alpino.

I pascoli, ovvero le praterie d’altitudine, un tempo dovevano essere sconosciuti a queste quote, o per lo meno molto più delimitati. La transumanza verticale, in passato alla ricerca di spazi sempre più ampi per il pascolo del bestiame, ha creato veri e propri vuoti nella fascia boscosa (faggeta e mugheta). Oggi resta solo un manto erboso che si diversifica a seconda della consistenza del suolo e dell’esposizione, ma negli ambienti più degradati a causa dello sfruttamento, questo si dispone in una conformazione tipica a zolle gradinate, alternate da terriccio, breccia e pietrame. All’inizio della primavera, con lo scioglimento delle nevi, hanno qui luogo estese fioriture di crochi, genziane e anemoni, ma anche viole e ranuncoli.

Sulla Majella la maggior parte delle formazioni rocciose sono localizzate nei valloni e nei canyons i quali, veramente singolari, incidono questa montagna in tutte le sue dimensioni, in altezza e in profondità, trovandosi il loro imbocco a quote spesso veramente basse (450-500 metri) e la testata raggiunge i circhi glaciali e gli anfiteatri rocciosi sottostanti le creste sommitali, ben oltre i 2000 metri. Qui, speroni e pareti rocciose di solito spingono le loro strutture fino all’interno della faggeta e, a seconda dello sviluppo verticale (anche centinaia di metri) e dell’andamento più o meno angusto del vallone, l’ambiente è condizionato dal grado di insolazione (a volte veramente esiguo) e dalla presenza dell’acqua. Di conseguenza la vegetazione è dominata in genere da piante adattate a situazioni costanti di freddo e umidità. Oltre alla citata Campanula del Cavolini, numerose sono le specie presenti sulle rupi, tra cui numerose sassifraghe (Saxifraga Lingulata, Saxifraga Ampullacea), la Campanula di Tanfani, la Potentilla Caulescens e, nelle zone più in ombra e bagnate dall’acqua, la Soldanella insieme all’Asplenio e alle coperture di Capelvenere.

Alla base delle pareti alcune piante erbacee e cespugli colonizzano gli estesi brecciai, regolati nella loro distribuzione dalla quota e dal grado di acclività dei pendii. In basso è presente la Dripide Spinosa insieme a viluppi di rovo. Dove le dimensioni delle ghiaie permettono maggiori interstizi tra di esse, cresce il Glasto di Allioni e il Cerastium tomentoso. A quote più elevate, su ghiaie minute e terreno stabilizzato, sono presenti il Caglio della Majella, il Doronico di Colonna, la Violaciocca, l’Erba Storna e ancora viole. Sulle rocce, cresce la piccola Cimbalaria Pallida, pianta solitaria.

Nell’ambito dei valloni un discorso a parte meritano le gole rupestri, ambiente ben rappresentato sulla Majella, dove generalmente tutti i valloni del versante orientale, per buona parte del loro sviluppo si riducono a vere e proprie gole, tagliate nel tenero calcare nel corso di milioni di anni dall’azione delle acque turbinose. A monte di quest’azione erosiva la tettonica, che con l’innalzamento complessivo dell’area, creava dapprima un allungamento del percorso fluviale e l’abbassamento della foce dei fiumi, per approfondire successivamente il solco mediante l’abrasione provocata dall’acqua. I reticoli sotterranei originatisi in seguito a carsismo, una volta raggiunti dal livello di base delle acque, contribuivano ancor più ad approfondire ciò che ormai costituiva un vero e proprio canyon. La fase di maggiore erosione delle acque avvenne in concomitanza con i periodi interglaciali, quando grandi quantità di acque si riversarono verso valle.

Oggi l’aspetto di queste gole, in alcuni casi vere e proprie forre inaccessibili, è ancora più impressionante se si riflette la quantità risibile di acqua drenata dai grandi bacini idrologici. La maggior parte delle gole comunque, almeno nella parte alta e nei settori mediani, risulta attualmente priva di acqua. Tra le gole più spettacolari della Majella, quelle del torrente Avello presso Pennapiedimonte, che si sviluppano incassate per circa 4 chilometri, per poi continuare ancor più selvagge nel fosso di Selva Romana e nella inaccessibile forra della Valle dell’Inferno, sotto la parete nord delle Murelle. Affascinante, ma più frequentata è la Valle di S. Spirito, che si origina a ridosso del paese di Fara, con la Gola di S. Martino, chiusa da alte e strapiombanti pareti di compatto calcare e in alto dalla Valle Cannella, dal paesaggio quasi mediorientale. Sinuosa e interminabile la gola della Val Serviera, assurta tra gli appassionati di torrentismo, a una delle discese più lunghe e difficili a livello Italiano. Essa non è che la continuazione di un’altrettanta lunga e selvaggia valle, quella del Forcone. Ugualmente considerevoli il Fosso La Valle, che risale la Montagna D’Ugni e la Valle delle Mandrelle che risale in direzione di Monte S.Angelo.

In questi ambienti dominati dall’ombra, a quote diversificate ma soggette comunque ad un clima particolarmente umido, sulle rupi soggette a stillicidio continuo d’acqua, trovano riparo alcune tra le piante più rare e meno conosciute della flora regionale: l’Aquilegia majellensis, la Pinguicola fiorii, la Parnassia delle paludi, la Peonia pellegrina. Insieme a queste piante, un corteggio di felci bellissime che numerose ricoprono per metri e metri le pareti e gli sgrottamenti umidi dei valloni: la Capelvenere, la scolopendria, l’Asplenio ed altre

Per quanto riguarda l’ambiente fluviale, nei tratti più marcatamente torrentizi, dove il suolo è spesso sconvolto dalla forza delle acque, la vegetazione è rappresentata da popolamenti erbacei e arbustivi, mancando, o essendo sporadici, gli aspetti di foresta ripariale a causa dell’assenza di una sufficiente stabilità ambientale. Sono quindi frequenti i popolamenti di salici arbustivi che si affermano nei siti meno coinvolti dalla corrente nei periodi di piena e spesso si compenetrano con gli elementi tipici degli altri ambienti di bacino (carpini, faggi, querce, aceri). Negli ambienti delle gole rupestri incise dai fiumi, si insedia una vegetazione ripariale igrofila dominata dalle felci (capelvenere, lingua cervina ecc.).

Piano culminale (orizzonte alpino 2300-2800 mt)

A queste quote prevalgono i brecciai, le formazioni rocciose e le pietraie che in estate, con il sole allo zenit, danno alla montagna quel colore abbacinante che ricorda ben altre distese desertiche. Il forte vento, le temperature estreme, l’assenza di risorse idriche, la ridottissima presenza di suolo fertile, rendono l’ambiente severissimo e superselettivo. Nonostante ciò, la montagna qui non è avara di piante e fiori dalle forme, colori e dimensioni particolarissime, che oltre a costituire le bellezze più preziose di queste quote, rappresentano la parte più rara e interessante del patrimonio floristico della Majella.

Oltre i 2300 metri è il regno degli altopiani, grosse distese pietrose, prive di vegetazione arborea, dove anche il manto erboso diventa discontinuo e a tratti inesistente. Le grandi escursioni termiche costituiscono uno dei fattori che fanno di questi luoghi degli ambienti desolati e dalla vita  severa. La piante che ivi attecchiscono hanno uno sviluppo e un’adattamento tutto particolare per resistere alla mancanza di acqua, al forte vento, al gelo e alle forti precipitazioni. Esse crescono avvinghiate al suolo e in colonie talmente fitte da formare caratteristici cuscinetti, come quelli della Silene acaulis, o con un piccolo apparato radicale che penetra nel terreno solo qualche centimetro, o ancora con dimensioni ridottissime e dotate di fitta peluria, sul fusto e sulle foglie, per meglio mantenere l’umidità notturna, unica fonte d’acqua nei mesi estivi. L’elenco delle meraviglie floristiche è qui inaspettatamente lungo e rappresenta quanto di più raro e interessante è rappresentato nella flora montana: la Primula orecchia d’orso, l’Androsace appenninica, lo Spillone della Majella, la Stella alpina varietà appenninica, il Camedrio alpino, l’Arabetta alpina, l’Adonide curvata e tante altre piante che in estate espongono forme graziose e colori sgargianti, tra i sassi e nelle fessure della roccia.

Conclusioni e considerazioni

La flora e la vegetazione della Majella e del Morrone, quantunque ancora rigogliose, a stento stanno recuperando il terreno perduto, rimarginando le loro ferite. Quello che oggi è sotto i nostri occhi, tesoro di inestimabile valore, è ciò che resta di un patrimonio vegetale all’origine molto più esteso e biologicamente più rappresentativo. L’uomo, che nel corso dei millenni ha diviso la storia con questi monti, egli stesso in queste terre impegnato in una dura lotta per la sopravvivenza, ha aperto delle profonde lacerazioni nell’integrità dell’ambiente naturale. Il risultato delle sue attività sono la distruzione dei boschi di caducifoglie nella zona pedemontana, per usufruire del terreno a fini agricoli e il taglio indiscriminato della faggeta per praticare la pastorizia a quote sempre più alte. Sempre il pascolo degli armenti ha distrutto gran parte della fascia arbustiva di pino mugo. Probabilmente anche la sorte di essenze relittuali come la betulla (presente in una sola stazione nel Vallone di Macchialunga) e il pino laricio (insediato sugli strapiombi rocciosi della Val Serviera), ridotte a pochissimi esemplari confinati nelle zone più selvagge della montagna, è legata in qualche modo alla pressione antropica.

Ciò che la mutazione biologica e la selezione genetica sono riuscite a creare e a trasmettere nel corso di milioni di anni, è stato compromesso forse nel giro di pochi secoli; un lasso di tempo brevissimo, se confrontato con il tempo dell’evoluzione biologica. Oggi questo processo è in via di accelerazione!

Attualmente si stima che circa il 10% delle specie animali e vegetali conosciute al mondo sia andato perduto. Il declino delle specie selvatiche è ancora più consistente. Il ritmo di estinzione è migliaia di volte superiore a quanto avvenuto nelle precedenti ere geologiche, un’accelerazione legata per lo più agli effetti negativi delle attività umane sull’ambiente. Un esempio molto rappresentativo: ogni anno vengono distrutti 17 milioni di ettari di foreste tropicali, pari allo 0,9% del patrimonio totale. Dal secolo XVII ad oggi si è calcolato un numero di piante estinte pari a circa 400 specie, ma quelle in pericolo risultano essere ben 3325 (fonte “Ambiente Italia”, 1992).

Dal 1978 viene compilato e aggiornato un “Libro Rosso” delle piante estinte o in via di estinzione. Nell’elenco le specie sono suddivise in cinque categorie: estinte, minacciate, vulnerabili, rare e indeterminate, dove queste ultime sono quelle di cui al momento non si hanno precise conoscenze, tali da stimarne la possibilità di sopravvivenza. In Abruzzo le specie vegetali minacciate di estinzione sono 5, quelle vulnerabili 13 e 19 quelle rare (Tammaro, 1998).

Tra le cause principali di alterazione ambientale che direttamente o indirettamente sono causa della perdita di specie vegetali vi è il pascolo intensivo. Sulla Maiella e sul Morrone gran parte del territorio posto tra 800 e 1800 metri è ridotto a pascolo: S.Eufemia, vallette sommitali del Morrone, Passo San Leonardo e Maielletta. Qui, in molti casi, specie nella buona stagione, è considerevole il sovraccarico di bestiame. L’aratura e il dissodamento del terreno poi, per impiantare colture in vecchi pascoli, è un’altra causa diretta di perdita di specie vegetali, che a volte proliferano proprio negli incolti e nei prati degradati.

La captazione di acque e la costruzione di dighe, se da una parte esplicano un’azione benevola sul territorio, per via del miglioramento del clima e dell’economia locale, dall’altra determinano la distruzione di habitat naturali e quindi di specie vegetali. La bonifica di porzioni di territorio ha creato in passato notevoli impatti sull’ambiente, favorendo la scomparsa di specie legate ad una particolare situazione climatologica. Un esempio per tutti il prosciugamento a metà del 1800 del lago Fucino, con la relativa scomparsa di una vegetazione arborea, arbustiva e floristica, di tipo prettamente mediterranea.

Alcune espressioni della presenza antropica, come industrializzazione e urbanizzazione, sono le forme di più considerevole impatto ambientale, svolgendo esse un’azione degradante e inquinante direttamente sul suolo, nell’acqua e nell’aria. Altre attività legate all’antropizzazione, come il turismo, hanno apportato in questo ultimo scorcio di secolo modifiche all’ambiente e al paesaggio, veramente considerevoli: l’uso dei mezzi motorizzati anche a quote elevate; l’abbandono di rifiuti di ogni tipo, specialmente quelli derivate dalla combustione e lubrificazione di motori; la costruzione di strade e sterrate spesso inutili; il proliferare di parcheggi, impianti di risalita e residence. A questi si deve aggiungere senz'altro la raccolta irrazionale e smodata di alcune specie, come le piante officinali, quelle aromatiche usate per i liquori e alcuni funghi commestibili tra i più ricercati. Grosso problema di impatto ambientale, in seguito allo stravolgimento dell’assetto idrogeologico e paesaggistico è la presenza ovunque sul territorio di cave per l’estrazione di inerti (versante occidentale del Morrone e territorio di Pretoro), in molti casi abbandonate e pericolose per l’incolumità dell’uomo e degli animali. Anche i cantieri di rimboschimento, se da un lato utilissimi per la protezione del suolo e per il miglioramento del paesaggio, dall’altra, con l’apertura di nuovi sentieri e strade sterrate, l’abbandono sul terreno di paleria e filo spinato, non esplicano un’azione benefica sull’ambiente.

Le discariche, a volte posizionate in collina o nelle zone pedemontane, oltre ad essere legate alle tematiche scottanti sull’inquinamento dell’ambiente, rappresentano a volte un fattore nocivo sulla vegetazione a causa della scelta sconsiderata e senza criterio dei siti utilizzati. Infine gli incendi, a stragrande maggioranza di origine dolosa, sono uno dei problemi più gravi per l’ambiente degli ultimi 50 anni, sia che si parli di bacino Amazzonico, che di foreste appenniniche. I danni, che la natura solo faticosamente e con tempi molto lunghi riesce a recuperare, sono sotto gli occhi di tutti.

         La legge Quadro sulle aree protette 394 del 1991, come finalità prioritarie detta principi per l’istituzione e la gestione delle aree naturali protette, per garantire la conservazione del patrimonio naturale, inteso come l’insieme degli aspetti strutturali dell’ambiente, quali le formazioni fisiche, geologiche e biologiche del territorio, ed in particolare detta le norme per la tutela e la conservazione, tra le altre cose, delle specie animali e vegetali.

Diversi sono gli aspetti che rendono importante la difesa del patrimonio vegetale; prima di tutto la ricchezza in se delle forme biologiche, quale esempio della complessità della vita e quindi bagaglio inscindibile della scienza e della cultura. E` indubbio che la biodiversità rappresenta una riserva inesauribile a livello genetico, all’occorrenza a disposizione per risolvere i grandi problemi dell’umanità legati  alle risorse energetiche, all’alimentazione, alla lotta contro le patologie. Inoltre a tempo più determinato, specialmente per le aree interne del paese, la natura in tutte le sue espressioni è una grande risorsa dal punto di vista turistico e quindi economico. Più tecnicamente invece si può affermare che la tutela dell’ambiente, attraverso la difesa delle sue forme strutturali (boschi, pascoli, strutture rocciose, pendii, torrenti ecc.), può aiutare a tenere sotto controllo l’assetto idrogeologico del territorio e a scongiurare o perlomeno ad ammorbidire gli effetti a volte devastanti delle calamità naturali: frane, smottamenti, alluvioni. Ma il mondo vegetale costituisce, attraverso le sue forme più evolute, boschi e foreste, il polmone del pianeta terra. Il processo della fotosintesi che permette al mondo vegetale di assorbire anidride carbonica e immettere nell’atmosfera uguale quantità di ossigeno, rappresenta uno dei processi più importanti per la vita sulla terra, ma anche una delle poche armi naturali a disposizione per combattere l’effetto serra.

Oltre alle aree protette, che siano parchi nazionali o riserve naturali, la tutela del patrimonio vegetale, legato al modus vivendi di ogni giorno, non può che essere affidato ad una regolamentazione degli usi, comportamenti e abitudini del cittadino. Lo Stato e le Regioni, ma anche Province ed enti locali, Comuni e Comunità Montane, possono legiferare a proposito e promuovere qualsiasi forma atta al controllo sul rispetto di vincoli e divieti. Tra le leggi più importanti in proposito che riguardano la Regione Abruzzo è fondamentale la Legge n. 45 del ‘79 “Provvedimenti per la protezione della flora in Abruzzo”. Con questo provvedimento legislativo si è inteso dettare le norme basilari per la conservazione degli ecosistemi e dei biotopi abruzzesi, ma anche (Legge 38, luglio 1982, “Incremento e salvaguardia del patrimonio arboreo...”) promuovere il miglioramento e il risanamento dei luoghi in passato oggetto di interventi degradanti, quali aree boscate, argini fluviali e cave dismesse.

In questo senso purtroppo il bilancio di questi venti anni trascorsi non è positivo; la leggi sono adeguate al problema ma ancora non del tutto attuate. I divieti, le limitazioni e le prescrizioni per la raccolta della flora, dei frutti di bosco, dei funghi, del taglio degli alberi, quasi mai vengono applicate e manca su tutto il territorio regionale, incluse quelle aree protette che più di tutte andrebbero salvaguardate, un attento e severo controllo da parte di quei corpi statali, regionali e locali che la normativa indica come incaricati alla informazione e soprattutto alla vigilanza sul territorio e, in particolare nell’ambiente naturale.

Ma la tutela di questo patrimonio andrebbe comunque esplicata anche ai minimi livelli, in quei settori della vita civile dove in genere si esperiscono le pratiche di progettazione e pianificazione che in genere sottintendono all’utilizzo e alla trasformazione del territorio (opere di ingegneria civile, industriale, idraulica e stradale). La valutazione di impatto ambientale (VIA), fino ad oggi semplice “elemento di disturbo” nell’iter tecnico di approvazione dei progetti costruttivi, sembra che abbia un suo ruolo solo nelle grandi opere pubbliche, mentre viene trascurato e spesso disatteso -dove esistente-, in tutti quei lavori a livello locale che comunque abbisognano di rilascio di autorizzazioni e concessioni da parte delle regioni, province e comuni. In queste sedi tanto si potrebbe fare per la salvaguardia di particolari realtà naturali (biotopi), fuori dalle perimetrazioni delle grandi aree protette, ma meritevoli lo stesso di particolare attenzione.

Parallelamente è in laboratorio, diciamo così, che si gioca una carta importante per la conservazione della diversità biologica, in quei posti come gli orti botanici dove si conserva una vera e propria banca dati genetica, attraverso un paziente lavoro che tende a ricreare “extra situ” quelle condizioni, ambientali e climatiche, in grado di offrire l’attecchimento di specie vegetali rare o in pericolo di estinzione. Tra gli orti botanici presenti in Abruzzo, una menzione particolare, per quanto riguarda il territorio del Parco Nazionale della Majella, spetta al giardino botanico “Michele Tenore” da qualche anno funzionante, insieme all’annesso museo archeologico, nel centro abitato di Lama dei Peligni.

                                                                         

     Giancarlo Guzzardi - Sulmona, novembre 2000


 Accompagnatore di Media Montagna

Giancarlo Guzzardi

gguzzardi@interfree.it