I Racconti della Montagna

 

Il risveglio dell’Orco

Non è un luogo comune, la Nord del monte Camicia con i suoi 1200 metri di parete, le cronache movimentate e gli aneddoti singolari della storia alpinistica, a buon diritto si conferma simbolo di una sfida in cui, nonostante gli artifizi della tecnica moderna, la montagna mantiene inalterato il suo carattere antico di luogo selvaggio e misterioso. Allo scoccare del terzo millennio con la temibile fama di “Eiger dell’Appennino” conserva tutto il fascino e le attualità proprie di una mitica big wall.

Il silenzio non durò a lungo. La luna pallida prese a trafiggere un ammasso di nuvole oscure che il vento urlando spingeva verso l’alto e la parete sprofondò nel buio.

        Solo il bagliore tenue dei ricami di ghiaccio punteggia la notte sopra le nostre teste, dove la parete s’innalza poderosa. Il senso di angoscia al cospetto di un bastione così possente e slanciato, è svanito con le prime ombre della sera, ma un timore vago e misterioso resta nei nostri pensieri; qualcosa di indefinibile e ignoto che accompagna i nostri movimenti resi ormai rigidi dal freddo.

        Con operazioni lente e studiate ci prepariamo alla lunga attesa di un bivacco notturno. Ma a tratti la testa torna ad assumere quella posizione inusuale per guardare lassù, verso l’alto, dove la parete ora si nasconde, presenza opprimente. Un tramonto livido dai colori plumbei ha ormai portato via in una lenta agonia quella luce fioca che per tutto il giorno ha cercato di filtrare attraverso banchi di nuvole lattigginose e gonfie, di un cielo basso e pesante. L’atmosfera impressionante, foriera di tempesta, nella notte rivelerà tutto il significato dei suoi foschi presagi!

            L’EIGER DELL’APPENNINO

-”Nessun altro monte, nella zona che esso domina al nord, può essergli neppure paragonato. (...) Lo sguardo si appunta sull’ombra della Parete Nord e chiunque, anche l’osservatore non solito a salire i monti, alla vista di questo gigantesco appicco, non potrà fare a meno di provare l’impressione di guardare in un mondo completamente diverso e pieno di mistero.”- Così scriveva Toni Hiebeler nel 1973 nella sua opera dedicata all’Eiger. Chi però altrove si è introdotto comunque nei meandri di una grande parete esposta a settentrione, come quella del Monte Camicia appunto, dimenticherà presto di essere negli Appennini, ad una latitudine che in genere fa sorridere gli addetti ai lavori delle riviste specializzate e farà in breve sua questa profonda impressione di disagio che la vista della parete suscita. L’incredulità popolare che spinse nel 1936, gli autori della prima salita, a tornare sulla parete e a rettificarne il tracciato, è frutto dello stesso timore arcano che per secoli aveva pervaso l’animo delle popolazioni vissute all’ombra delle più immense Alpi: “monti spaventosi e inavvicinabili, dimora soltanto di dei e demoni”.

        In Appennino questo stesso sentimento, una sorta di fatalismo superstizioso legato alla natura, ha impresso un solco profondo nella vita spirituale e materiale degli “uomini della montagna”, ed è sopravvissuto fino a pochi decenni fà. L’immagine da orco addormentato, pronto a ghermire nei suoi meandri l’incauto alpinista, la nord del monte Camicia non l’ha mai persa del tutto, anzi, nonostante i suoi segreti siano stati ormai più volte violati -poche a dir la verità-, l’atmosfera cupa e repulsiva che si prova a raggiungere quella profonda, ultima depressione che si apre ai suoi piedi, resta tuttora intatta. Tutto come sessant’anni fà, quando quattro audaci e intraprendenti alpinisti di Pietracamela, Ernesto Sivitilli, Bruno Marsili, Armando Trentini e Marino Trinetti decisero che non era più il tempo di stare a guardare e, superando saltini rocciosi e balze erbose sull’estremità destra della parete, nel 1927 ne porteranno a compimento la prima salita esplorativa. Dovrà passare ancora qualche anno, per vedere una cordata impegnata nella parte centrale degli appicchi rocciosi, cuore della parete. Ma nel 1934, Bruno Marsili e Antonio Panza, ne effettueranno la prima ascensione: una via con più di 2000 metri di sviluppo, su un terreno complicato e infido. Il ghiaccio era rotto, ma i problemi che si presenteranno nel tempo alle varie cordate che via via ne porteranno a compimento la ripetizione (o tenteranno), saranno ogni volta immancabilmente quelli ansiosi di una grande “prima”. Le cronache di queste salite, spesso conosciute solo in una ristretta cerchia di persone, sono quasi sempre movimentate, spesso rocambolesche: discese interminabili sotto l’imperversare della bufera, bivacchi inaspettati, attese spasmodiche a valle, perdita dell’itinerario, ramponate su erba verticale, roccia incrostata di ghiaccio, tiri da far rizzare i capelli, assicurazioni aleatorie. L’ultima in ordine di tempo (settembre 1999) è quella che ha visto coinvolto un “alpinista del nord”. Esperto e preparato, era partito da solo per affrontare la difficile parete che, anche questa volta purtroppo, non ha gradito. Un elicottero del soccorso alpino porterà in salvo il malcapitato bloccato in parete, impossibilitato a portare a compimento la salita.

            DIONISO BATTE IL TAMBURO

Questa ed altre storie si accalcano nella mia mente, quando scomodamente insaccato nel sacco a pelo, spengo la lampada frontale ed assaporo il flash improvviso del buio intorno. Siamo quasi a 2000 metri e all’esterno il termometro segna meno 14 gradi.

        Solo le luci minuscole di Castelli, paese disteso all’ombra della parete, brillano irreali dietro una foschia persistente che a tratti sembra celare ogni cosa. Di certo non ci facciamo illusioni: sopra di noi, al di là della nebbia, dense nuvole stanno ricoprendo la montagna: una di quelle sacche perturbate che, come spesso accade, improvvise e inaspettate interessano le zone interne dell’Appennino, condizionate da veri e propri microclimi. Ormai, superati due dei tre salti rocciosi che sbarrano la linea dei canali, non abbiamo altra scelta che quella di accettare gli eventi. Sappiamo che in discesa il cattivo tempo sa dimostrarsi più antipatico che in salita!

        Antonio ed Alberto, compagni di vecchia data, i soli in grado di poter condividere con me questa esperienza, sono anch’essi chiusi in chissà quali riflessioni. Nel silenzio posso sentire il loro respiro sommesso, ritmato, mentre la nebbiolina dell’alito condensa nell’aria gelida, lì dove un piccolo foro rivela l’identità delle loro mummie. Mi sento un pò colpevole: sono io in fondo ad averli coinvolti in questa faccenda che adesso si preannuncia tutt’altro che banale routine. Sicuramente ci sarà da tirar fuori quel fondo di passione e di energia che già altre volte in passato ci ha accomunati; sono anni ormai che non arrampichiamo più insieme e il loro assenso a questo progetto è dettato esclusivamente dall’assoluta “straordinarietà” della proposta. Ho fatto leva sulle loro emozioni e la personalità, assolutamente dionisiaca, non ha resistito a questa nuova sfida.

        Pensando ai misteriosi fuochi sacri che a volte divorano gli uomini, una musica ancestrale dal ritmo ossessivo pervade i miei sensi assopiti, cullandomi finalmente nella maestosità del momento: è il tamburo di Dioniso che chiama a  raccolta! Chiudo gli occhi e mi addormento.

         ...E` passata da poco la mezzanotte, quando uno strano senso di inquietudine mi impone di aprire gli occhi: nevica a larghe falde e i colpi che rimbombano intorno a noi, non sono quelli di un tamburo, ma sassi che da qualche parte forano la nebbia per cadere chissà dove. Tra un colpo e l’altro, una strana calma pervade la montagna ormai invisibile; la temperatura ora è salita e goccioline di acqua stillano dal soffitto del piccolo sgrottamento che ci ospita.

          Non c’è tempo per pensare! Forzare l’uscita verso l’alto ci sembra l’unica decisione sensata.

         Il cambiamento del tempo, già dal mattino preannunciato, si sta rivelando più pesante di quanto pensassimo. Con queste condizioni il piacere della salita e la logica dell’itinerario passano sicuramente in secondo piano; ora c’è bisogno solo di uscire da qui e nel miglior modo possibile: l’Orco si è svegliato!

        Le corde bagnate scorrono con difficoltà e il manto nevoso si fà sempre più inconsistente. Alla luce delle frontali, saliamo lentamente, cercando le minori difficoltà, ma la visibilità è quasi nulla e le soste nella neve pesante si rivelano penose. Il senso dell’orientamento è ormai stravolto e quella che dovrebbe essere una linea di canali ben incisa su questa porzione di parete, si è trasformata in un terreno assolutamente sconosciuto e insidioso; una successione di piccoli problemi da risolvere man mano che emergono dal biancore diffuso. Una lingua di neve molle ci annuncia il termine del terzo salto roccioso, in parte aggirato sulla sinistra, che lungo lo scivolo uno strato preoccupante di neve fluida comincia a muoversi lentamente verso il basso. Saliamo di conserva, anche se la pendenza è notevole e la progressione pericolosa per l’instabilità del manto nevoso. E` una fatica da cani, con gli zaini pesanti e l’acqua fin dentro le mutande!

        Il fatto di non vedere assolutamente niente, ai lati, in alto, dappertutto, ci rende nervosi costringendoci a serrare i tempi. Il terreno è molto ripido, ma di assicurazioni non se ne parla; richiederebbe molto tempo e mentre intorno a noi rotola a intermittenza il borbottio cupo del tuono, penso alle enormi masse di neve, che il giorno prima abbiamo osservato con evidente impressione ai piedi della parete. In quel pozzo chiamato Fondo della Salsa, finisce tutto ciò che la montagna si scrolla di dosso e al di sopra di noi non c’è niente che possa arrestare la neve che in alto velocemente si accumula nei colatoi ghiacciati.

        Il tempo scorre in fretta e quando l’alba si preannuncia con un chiarore diffuso che rende il paesaggio ancor più accecante, il numero dei tiri effettuati si perde nello scompiglio di una progressione, resa ancor più lenta e pericolosa dalle slavine di neve bagnata che a intervalli di mezzora si riversano giù dal nulla. Siamo come ciechi nell’intrico di un labirinto, ma sui lati non vi è via di fuga: il canale sembra serrarsi tra costole rocciose che in queste condizioni è impossibile esplorare.

        Nel tentativo di ognuno di reagire e tenere duro, non c’è più posto per le parole: suoni intellegibili e gesti enigmatici scandiscono il ritmo di quella che resta con il passare delle ore solo una lotta per la sopravvivenza. Nell’aria non c’è sentore di schiarita e la fatica sembra senza fine.

        L’ultimo contatto telefonico con Andrea, nostra “base” giù a valle, risale alle ultime ore della notte; un dialogo concitato e pieno di preoccupazioni,  con chi ha perso il contatto visivo già da molte ore ormai. Nessun’altro è a conoscenza di questa nostra sortita!

        Un vento tremendo soffia ora rasente la parete dove questa, per via della quota, sembra essere più aperta ed esposta alle intemperie. La situazione si fà veramente dura, ma nel profondo dell’animo ognuno di noi cerca di scongiurare quell’istante in cui dovremo prendere la fatidica decisione di fare “dietro front”. Quel momento ci fa paura! Allora riecheggiano chiare nella mia mente le parole di Lino D’Angelo, Guida Alpina di Pietracamela, che tanti anni fà  raccontava a noi, allievi in erba di un corso di ghiaccio, i momenti terribili vissuti in compagnia di Luigi Muzii durante la lunga discesa sotto la tormenta, in occasione di un tentativo invernale nel febbraio del 1967.

            UN SOGNO NAUFRAGATO

Tra le nebbie spazzate da raffiche di vento, a tratti emergono sopra le nostre teste ombre scure: in un’atmosfera spettrale gli speroni arcigni di un anfiteatro roccioso sembrano bastioni a guardia degli inferi. Solo il sole, con la magia della luce, riuscirebbe a rendere il fascino di questo ambiente, ma ora la sensazione di timore provato, pesa nell’animo come un macigno e nel silenzio i nostri sguardi si incrociano interrogativi. Siamo in alto, ma non abbastanza per essere fuori dai guai anzi, qui la nostra linea di salita incrocia la Via dei Castellani: oltre 300 metri di colatoi e qualche salto roccioso prima di uscire dalle difficoltà. In queste condizioni, con la scarsa visibilità e la linea di salita poco evidente, tutto ciò potrebbe richiedere ancora una giornata di duri sforzi.

        Mentre affrontiamo una lunga rampa-canale chiusa tra la parete e una specie di avancorpo, mentalmente passiamo in rassegna il materiale che ancora ci resta. Alla fine di un tiro ripido, dopo una serie di colatoi incassati, un salto compatto sembra non offrire più alcuna via di uscita e le nostre risorse sembrano ormai quasi allo stremo. Quando il fracasso assordante di un tuono squarcia di nuovo il silenzio, la montagna sembra quasi venir giù intera. Pochi istanti dopo è col rimbombo cupo nelle orecchie e un misto di sollievo e paura nell’animo che attrezziamo la prima doppia.

        Controllo il piccolo spuntone, guardo giù in basso e mentre piano scivolo indietro i primi metri, la nebbia sembra inghiottirmi, densa e lattiginosa. Sento la paura serrarmi la bocca dello stomaco e un tremolio incontrollato impossessarsi delle gambe. Più oltre, 900 metri di vuoto mozzafiato precipitano in basso scomparendo nella nebbia: una discesa interminabile; tra gli schiaffi del vento e la neve impazzita, sotto una doccia continua di acqua e pezzi di ghiaccio, contiamo i minuti e le ore che ci separano dal ritorno alla vita.

        Un’altro giorno sta volgendo al termine, chiudo gli occhi e lascio scorrere la corda nel discensore: ........giù, ...ancora giù, ancora e ancora!

E’ a stento che nel fascio della frontale riconosciamo in un cumulo di neve il cippo in memoria di Piergiorgio De Paolis. I tronchi ieratici dei faggi incrociano il nostro cammino, ma prima di entrare nel bosco nessuno ha più voglia di voltarsi indietro. Alle nostre spalle, dietro una cortina impenetrabile, tonfi e sussulti salgono ancora dalle viscere della montagna.

        Nessuna emozione è in grado di fare breccia negli animi, nessun moto di ripulsa, amarezza o delusione, solo stanchezza, una stanchezza tremenda! .....Ho voglia solo di buttar via questo peso da titano che mi opprime!

© diritti riservati - Giancarlo Guzzardi