I Racconti della Montagna

“La Parete”

 Arrampicare d'inverno in Appennino

 

Sistemo lo zaino su un gradino di neve ai piedi di uno spuntone di roccia che affiora dalla coltre profonda, mentre il mio compagno, poco distante, prepara un ancoraggio.

Penso che questo suo martellare sia superfluo, così come il legarsi su questo tipo di terreno. Probabilmente una maggiore esperienza gli permette di valutare in modo più accorto la situazione. Davanti a noi il pendio nevoso continua ripido prima di morire alla base della parete, dove un canale divide la bastionata in modo marcato; una ferita nera, netta per oltre due terzi, poi ramificata in alto dove la verticalità si attenua e il nero delle rocce lascia spazio al bianco della neve.

Oggi la giornata non è delle migliori, l'azzurro e il sole di ieri hanno lasciato posto ad una cappa opprimente di nuvole e ad un vento gelido. Durante la notte, nei sacchi a pelo, tra i bagliori del fuoco, i nostri propositi sono mutati di frequente in seguito allo scrosciare della pioggia, al tremolio delle stelle, al picchiettare della grandine e ancora al ritorno delle costellazioni: rinunciare, andare avanti, scendere a valle, salire?!

        Al primo chiarore non v'è bisogno di mettere il naso fuori per controllare l'evoluzione del tempo: in quel disadorno locale di pastori scelto come ricovero, la porta inesistente offriva un'ampia visuale sulle condizioni esterne. Indugiamo un po’. Arrivare fin qui per bivaccare e poi scalare ha richiesto fatica e sudore; far coincidere la nostra disponibilità con le condizioni ideali della montagna ha imposto un'attesa di anni.

        Durante una schiarita proviamo a recuperare il sacco del materiale, depositato la sera prima all'attacco della via. Stimolati dall'aria pungente risaliamo con passo deciso l'erta di neve indurita dal gelo della notte, ma la schiarita è di breve durata. La nebbia ci avvolge nuovamente in un abbraccio umido e solo le tracce lasciate il giorno prima ci permettono di individuare il sacco. Il suo colore blu spicca inconfondibile nel grigiore diffuso; pur sballottato dalle raffiche di vento è ancora al suo posto, parte di una corda pende all'esterno, ormai gelida e irrigidita come non avrei mai immaginato.

        Il tempo non lascia presagire nulla di buono. Con uno sguardo di intesa stabiliamo di salire qualche tiro, almeno per tornare giù con l'onore delle armi; vogliamo rimandare il più possibile il momento della rinuncia, sappiamo che se andassimo via, di certo qui non torneremmo più: è il nostro terzo tentativo.

            UN'IDEA CAPARBIA DI RIVALSA

        Carlos inizia a salire spedito, più di quanto permetta la corda indurita. In pochi minuti è tesa, tocca a me, che lo raggiungo ormai a pochi passi dalla parete. -"Va' avanti e fermati all'imbocco del canale"- grida nel vento, e poiché mi è capitato poche volte di precederlo, ascolto volentieri quelle parole, che suonano come una dichiarazione di fiducia nei miei confronti.

        In cordata salire da secondo assicura una certa tranquillità, ma richiede anche una buona dose di pazienza nelle soste, dove bisogna restare immobili al freddo o al caldo, col vento o sotto il sole, quando i movimenti del primo, visti d'abbasso, appaiono maledettamente lenti, su un terreno che sembra più accessibile di quanto poi non si riveli a percorrerlo.

        Visto che per tacita convenzione è compito del secondo portare il carico eccedente, gli lascio con piacere lo zaino. Inizio quindi ad alzarmi sul pendio sprofondando nella neve fino al ginocchio: i miei chili in più fanno sentire la differenza. Dove lui riesce a passare lasciando solo le impronte dei ramponi, ai più viceversa tocca segnare con buche evidenti la traccia del passaggio. Arrivo sotto la fascia rocciosa da cui si proietta la conoide del canale, volgo i passi verso sinistra e sono sul bordo della vasta fenditura. Devo salire ancora una diecina di metri per trovare un chiodo sulla destra del colatoio. Lo ricordo bene, sono passati degli anni, eravamo in tre ed io ero tra tutti quasi un peso morto, maldestro e inaffidabile per le manovre che la salita richiedeva. Delegavo anche il compito di recuperare i chiodi, lavoro che avrebbe richiesto alla mia scarsa tecnica, un gran dispendio di tempo ed energie. Ricordo anche che, in quella occasione, c'era qualche lingua di neve solo sul fondo del canale e che la roccia pessima offriva appigli malfermi e sensazioni da brivido. Ma quel chiodo benedetto era stato raggiunto velocemente.

        Mi alzo quindi senza incertezze su piccoli appoggi spolverati di bianco, mentre le mani nelle moffole cercano una valida presa. La neve e il ghiaccio sembrano adesso cementare i sassi; in un certo senso ciò migliora la situazione, ma le superfici sono scivolose e impongono i ramponi anche sulla roccia, il che è tutt'altro che piacevole. Salgo qualche metro ma la becca della piccozza non riesce a mordere il leggero strato di ghiaccio, devo ricorrere alle mani. Le sposto in alto, gli appigli sono piccoli e gelati, poco sicuri. Guardo in basso: la fine del canale appare spostato rispetto alla verticale; il colatoio termina con un salto di una quarantina di metri. Basterebbero sicuramente penso, ma ho paura che sotto ci sia dell'altro. E' il caso di un rinvio!

        Cerco una fessura ma è tutto intasato di ghiaccio. Salgo ancora, osservo con una certa apprensione, ma non trovo nulla. Rifletto un attimo, evitando di guardare in basso. Prima di entrare nel canale mi pare di aver visto qualcosa. Con precauzione torno sui miei passi. Il solido spuntone che mi aveva sostenuto salendo, ora traballa sotto la mia mano; immediatamente lo scanso come fosse un serpente. Ho bisogno urgente di un rinvio! Giù ancora due metri e finalmente torno con i piedi sulla neve, ma non trovo quello che cerco. Scendo ulteriormente e scorgo una fessura, vi pianto un chiodo che entra troppo rapidamente e mi accorgo che sono tornato a quindici metri dalla sosta. Riparto col conforto psicologico del rinvio, ritrovo appigli ed appoggi ed entro finalmente nella lingua di neve, ora ripida e molto dura. Salgo qualche metro, ancora rocce sotto un velo di ghiaccio, poi ancora neve. La corda ora mi trattiene, è finita e non sono in grado di preparare velocemente un ancoraggio sicuro.

        Fa molto freddo. Dal grigiore incombente cominciano a scendere palline di neve, che in breve sulle rocce si trasformano in piccoli rivoli. Non resta che cercare un angolo riparato e valutare insieme il da farsi. Eventualmente con qualche doppia possiamo tirarci fuori da qui.

        Improvvisamente davanti a me si materializza finalmente il chiodo che cercavo. Guardo giù: il vuoto attira indubbiamente lo sguardo, ma devo dire che non ha un effetto confortante sui muscoli della mia gamba sinistra, che presto inizia quel rapido moto involontario di solito definito tremore. Cerco di dominarmi imponendomi la calma. Aggancio tutto, ricontrollo i nodi respingendo la fretta e dopo essermi scavato una piazzola nella neve grido a Carlos di venire su, sperando che senta.

G.Guzzardi sul primo tiro della via Panei, foto E.PaoliniRecupero la corda senza vederlo, ma è chiaro che viene su di buon passo; dopo un po’ però la corda fila più lentamente, a tratti. Dev'essere sulle rocce ricoperte di vetrato, ma non ho sentito colpi di martello. Sicuramente starà gustando come è ostico il terreno! Lunghi momenti, la corda di nuovo si allenta, infine spunta il casco bianco e pian piano la sua sagoma.

        -"Ti vedo. Ci sei!"- grido, per segnalargli che è alla fine della lunghezza. Non risponde, sale con calma afferrando gli appigli a mani nude. Non so proprio come faccia a resistere al freddo, anche se ormai non nevica più. Mi è a lato, lo aiuto a sgravarsi dal peso dello zaino e dopo alcune considerazioni sul tiro delicato e il chiodo inaffidabile, le sue parole si trasformano in gemiti prolungati: dopo la perdita di sensibilità alle mani, la  circolazione riattivata nei capillari è fonte di dolore lancinante. Non posso far nulla.

        Pian piano Carlos si riprende ed io capisco che è giunto il momento decisivo: per quanto mi riguarda sono disposto sia a continuare la salita che a scendere senza troppi rimpianti, prima che l'operazione diventi troppo problematica. Passano alcuni istanti, entrambi pensiamo alla situazione in cui ci troviamo: le condizioni del tempo, ma soprattutto le difficoltà tecniche che troveremo più avanti. Oggi bisognerà di certo tirar fuori quel fondo di passione e di energia che già altre volte ci ha sostenuto e accomunati. -"Posso continuare..."- soggiungo, -"No... vado io!"- risponde, confermando la mia convinzione che il Maestro non  sempre è veloce a scaldarsi, ma sa recuperare presto le sue potenzialità. Ad ogni buon conto, prima che riparta, non dimentico di indossare la giacca a vento, d'inverno le soste si rivelano sempre gelide!

        Sale spostandosi verso il centro del canale, poi punta sul lato sinistro. Pochi metri e scompare dietro una costola rocciosa. Riappare subito al di sopra, la corda smette di scorrere. Sento martellare, un chiodo penso, poi un richiamo perentorio di via libera.

        Salgo, velocemente recupero un rinvio e sono al suo fianco. Proseguo e mi accorgo che anche su questo lato del colatoio si scherza poco. Mi alzo su sporgenze distanti e decisamente poco adatte ai ramponi. Mi reggo su due, forse quattro punte e cerco solo quegli appigli che si adattano a mani coperte da guanti. A guardare in basso le emozioni non mancano, cerco allora una fessura; eccone una, sistemo quindi un friend. Ancora pochi metri di roccette e trovo infine un pendio, ripido ma innevato, dove immagino si possa procedere più velocemente. Cosi è infatti, ma dopo qualche passo una paretina levigata, strapiombante per circa due metri, sbarra il fondo del canale. Non vedo fessure o appoggi netti ai lati. Per me la soluzione è nella becca della piccozza, piantata al di sopra del salto ed usata in trazione.

        Mi alzo sulle punte dei ramponi, mi isso tenendo il manico della piccozza con la sinistra e grattando con i ramponi sulle rocce alla mia destra. Mi aiuto con l'altro braccio, afferro la piccozza in appoggio e riesco a posare un ginocchio sull'orlo del salto, poi l'altro piede. Estraggo anche il martello da ghiaccio e lo pianto in avanti, mi tiro su, un bel respiro e continuo. Non più di quindici metri, la striscia di neve s'interrompe di nuovo, il canale si allarga, ma non sembra più facile. Vedo una possibilità: un diedro con una faccia ricoperta di vetrato e l'altra un po’ più articolata. Al di sopra altre rocce coperte di neve, con appoggi minuscoli ed infidi. Non v'è da scegliere, salgo con la gamba sinistra in opposizione e pianto la piccozza in avanti sulla neve. Sento al di sotto la roccia scheggiarsi ma provo lo stesso a tirarmi su, la becca resta a mezz'aria e a malapena riesco a conservare l'equilibrio.

        In situazioni simili un rinvio è l'unica cosa in grado di procurare una certa tranquillità. Niente di adatto per un dado o un friend, ma il posto giusto per un chiodo. Poco più su, con rammarico scorgo un vecchio chiodo; dal basso non era visibile, infisso com’è dentro una piccola nicchia. In opposizione di braccio e gamba, salgo ancora e al di sopra trovo neve sufficiente per riposare. Ho ancora altri cinque metri di corda e incomincio a pensare ad una sosta quando alla mia destra scorgo un'altro chiodo. Velocemente moschettono e decido che il tiro finisce qui comunque. Soluzione tempestiva perché guardando in su, ad un metro e mezzo scorgo un cordino  ormai consunto e sbiadito. Lo agguanto: è frusto e rigido come fil di ferro, sotto la neve e il ghiaccio non riesco a distinguere bene dove sia infilato. Provo a scrollarlo ma il risultato non cambia. Approntare un altro cordino richiederebbe troppo tempo, così collego quello in loco al chiodo sottostante e l'ancoraggio può considerarsi attrezzato. Dopo il classico scambio di comandi, la corda comincia a venir su.

        Sono praticamente in trazione sulla corda, con la suola degli scarponi alternativamente sulla neve o sulla roccia, entrambe tanto inclinate che più che appoggiarmi su di esse vi faccio opposizione. Domino dall'alto un grande tratto di parete e lo scorcio dell'ambiente è grandioso. Vedo un casco bianco che avanza, è lontano. Scompare sotto un piccolo strapiombo, riappare di nuovo, poi ancora si perde. Carlos è meno alto di me, ha il carico dello zaino; sicuramente non è opportuno in questo momento distrarlo con suggerimenti e indicazioni. Sa bene come districarsi, lo ha dimostrato tante volte e poi in più di una occasione la medesima difficoltà è stata da noi affrontata con tecniche del tutto diverse. Quel muretto però lo sta impegnando e il peso dello zaino certo non lo aiuta.

        Ecco, ce l'ha fatta! Risale il pendio con passo rinfrancato avvicinandosi al passaggio critico. E' sotto di me, ma non vuol saperne di fermarsi per una foto ricordo. Viene su togliendo i rinvii senza problemi. Insisto con la mia vocazione fotografica, lo inquadro da una posizione scomoda, continuando a tenere con una mano la corda di assicurazione: sarà una foto realistica e drammatica!

        Allungo un po’ la corda e salgo più in alto per fargli spazio così può avvicinarsi e liberarsi dello zaino, dopo aver sistemato l'autoassicurazione. Questo tiro con qualche passaggio di forza pare averlo un po’ provato. La sosta scomoda non consente un veloce recupero delle forze, allora decido che il prossimo tiro è ancora il mio. Mi chiede se voglio bere o mangiare qualcosa, al mio diniego mi caccia in bocca a forza una pasticca di Enervit. Non ne sento alcun bisogno, non avverto stanchezza, non ho né fame né sete; tutta la mia attenzione è rivolta a quello che ci aspetta più su, però quel gesto premuroso, dal sapore quasi paterno, lo ricorderò a lungo.

        Abitualmente il Maestro ha un atteggiamento sicuro e spavaldo, tipico di chi in montagna ha accumulato maggiori esperienze, di chi meglio di altri padroneggia le varie tecniche, di chi con continuità cura il mantenimento della forma fisica, di chi ritiene di potersi permettere dell'ironia, talvolta pungente. Spesso ho pensato che si arrampica insieme solo per necessità; in solitaria certi traguardi per noi sarebbero preclusi, lo sappiamo bene. Ma a contrastare queste considerazioni stanno però quei gesti di profonda solidarietà, quelle parole che, improvvise, su di una vetta, durante una pausa o davanti ad un bicchiere di buon vino, squarciano quel velo di distacco e mi confermano che non sono un compagno intercambiabile. Da parte mia l'atteggiamento non è diverso: arrampicherei volentieri con qualcun altro, ma ho l'impressione che la presenza e la passione del Maestro, diano un tocco particolare a qualsiasi salita, a prescindere ovviamente dall'affiatamento che negli ultimi anni si è creato tra noi, dopo urli, rimproveri, chiarimenti ed immancabili brindisi a valle, di vittoria o consolazione.

        Comunque l'esito di oggi non è ancora scontato: si sistema come può, afferra la corda, prepara la mia sicura e in tono perentorio dice -"Tirami fuori da questa posizione!"-. Un buffetto amichevole e parto in cerca di gloria.

E.Paolini sul secondo tiro della via Panei        Mi alzo, ma il terreno non è poi superabile così agevolmente come avevo immaginato dal basso: esili appoggi, appigli radi e poco solidi. Devo passare comunque; un friend, ancora pochi metri ed eccomi fuori per ora, sono sulla neve e respiro. Il canale qui si dirama, alla confluenza affiorano rocce, punto verso di esse, offrono buone fessure. Uso due chiodi e un cordino in una clessidra per un solido ancoraggio. Carlos sale e continua sul tiro che segue. Sceglie il braccio del canale che sale diritto e innevato; il panorama è vertiginoso sui metri già saliti finora e sul pianoro prospiciente il versante nord. Dopo aver a fatica recuperato un chiodo, lo raggiungo rapidamente fino ad un ripiano nevoso, dove ci fermiamo a prendere fiato.

        In alto le nuvole corrono e lasciano spazio a squarci di azzurro; a tratti la carezza tiepida e luminosa del sole arriva fino a noi, quasi che il cielo ora voglia premiare la nostra perseveranza. Siamo fuori dalle difficoltà e procediamo di conserva, ma il pendio nevoso s'impenna ancora bruscamente e qualche piccolo muro strapiombante ci costringe a lievi deviazioni. La cresta finale non si vede ancora, ma non può essere lontana. Steli d’erba ricoperti da arabeschi di ghiaccio catturano la mia attenzione illuminandosi sotto un raggio di sole: sono pulsanti di vita nonostante il freddo, segni simbolici per uno stato d'animo ai limiti dell'ebbrezza. Oltre, la pendenza si fa lieve, saliamo affiancati e.....finalmente la cresta sommitale!!

        -"Kiotoooo..."- urlo a piena voce in uno stato di esaltazione, imitando l'ambizioso grido dello Shingen di Kurosawa. Quattro anni dopo il precedente tentativo, con una ritirata mai digerita, ce l'abbiamo fatta. Ancora pochi passi e sbuchiamo di fronte al mucchietto di sassi accatastati che segnala la vetta. Al centro c'è un palo di legno, un'altro è poco distante: bracci di una croce divelta dalla furia della tempesta. Anche ora le raffiche di vento soffiano poderose, ma non ce ne curiamo. Con lo sfondo indistinto dei monti circostanti imbiancati dalla neve, sotto uno sfilacciato tappeto di nuvole, il pianoro in basso solitario e selvaggio, a formare uno scorcio grandioso. Scattiamo veloci alcune fotografie, con l'intento presuntuoso di fermare nel tempo questo momento.

        Carlos mi stringe in un abbraccio che ricambio prontamente; da parte sua la gratitudine per il sostegno che ho dato a questa salita, da parte mia la riconoscenza all'unica persona che ha voluto essere con me in questa idea caparbia di rivalsa, coltivata tanto a lungo. Saliamo a volte con enormi sacrifici, freddo d'inverno, caldo d'estate e rischi in tutte le stagioni. Vale la pena misurarsi con le difficoltà di una parete, solo per scoprire angoli altrimenti irraggiungibili, provare emozioni intense di sfida al vuoto e appagamento per una via salita? Sensazioni queste, totalmente incomprensibili a valle, anche nella piccola cerchia di amici.

        Il vento è implacabile, è ora di andare. Il tempo pare volgere al bello, ma nuvoloni foschi persistono tutt'intorno. Se la nebbia scendesse ora, potrebbe crearci seri problemi nella discesa: il materiale da bivacco è nel ricovero a valle. Pregusto già un'altra fiammata nel camino. Un po’ di legna e una piccola riserva di cibo saranno sufficienti per allestire ancora un sobrio banchetto. In questa occasione ho assunto il ruolo di vivandiere e cuoco e i risultati, complici l'appetito e il fuoco, sono stati decisamente buoni. Il bivacco più confortevole della nostra vita alpinistica.

        Procediamo a fatica sulla cresta, tra il versante sud ovest spazzato da un vento infernale e la parete nord, ripido scivolo ghiacciato che scende a lambire la valletta solitaria, campo base della nostra ironica megalomania. Come capita di frequente non conosco i dettagli del percorso, lascio questo compito al Maestro, quindi  chiedo -"Li togliamo i ramponi?"-. La risposta arriva come sempre e nel tono abituale -"Sempre le solite domande..."-. Sento d'improvviso di uscire dal racconto e tornare nella realtà.

        In discesa disegneremo curve differenti e giù a valle il fuoco sarà ormai cenere, ma questa sera in città non mancherà un brindisi sicuramente.

(da una cronaca di Enzo Paolini) - © diritti riservati