Archeo


I Peligni e il Monte Morrone

Da un’alba antica del Pleistocene, quando le acque di un grande lago coprivano ancora i sedimenti che avrebbero dato origine alla conca Peligna, il versante meridionale del Monte Morrone, con le sue reppe assolate e i folti boschi, resterà per sempre muto testimone nei secoli a venire di un trascorso storico denso di avvenimenti, che vedrà le genti Peligne attraversare quel risibile lasso di tempo che segna la presenza dell’Uomo sulla terra.

            In un continuum spazio-temporale, una sensazione eterna di grandezza, quella di una natura severa e mai veramente addomesticata, torna instancabile a offrirsi dalle balze aeree di questo monte, da sempre luogo di santi, pastori e briganti. Dopo milioni di anni, un’incessante erosione ha solo rubato qualche metro alla sua rispettabile statura, sbriciolando le rocce più antiche e portando a valle cumuli di detriti. L’uomo, in tempi più recenti, per necessità o per incuria, ha viceversa profondamente inciso sull’ambiente trasformandone l’assetto geomorfologico e l’equilibrio ambientale, quantunque l’antropizzazione pressante non sia riuscita a scalfire la magia che emana da questi luoghi dove, in alcuni periodi dell’anno, nel silenzio e nella solitudine, ancora si può cogliere appieno l’atmosfera che per secoli fece di queste lande selvagge una “dimora dello Spirito” per alcuni uomini e un “refugium peccatorum” per altri meno inclini al misticismo.

            Oggi le montagne del Morrone, che non hanno mai perduto quel fascino primordiale di territorio aspro e selvaggio, all’interno di una grande area protetta, quella del Parco Nazionale della Maiella, tornano a godere di una giusta considerazione e del dovuto rispetto. I sentieri ombrosi nel bosco, gli aridi canaloni, le vallette in quota, i pascoli e le praterie fiorite continueranno a conservare per secoli ancora, tutte le caratteristiche peculiari che fanno delle montagna appenninica un’ambiente naturale, un’ecosistema e una wilderness irripetibili.

            L’ONDA LUNGA DELLA STORIA

La “regione dei Peligni” in passato era costituita dalla bassa pianura dove sorgono Corfinio e Sulmona, con le naturali prosecuzioni, a sud e a nord, della Valle Subequana e dell’Altopiano delle Cinque  Miglia. Le antiche paludi ivi esistenti, da molto tempo ormai scomparse, erano le tracce lasciate dal grande lago peligno. Dove ora si estendono ridenti campi coltivati, una volta vi era acqua dolce. Nel corso di milioni di anni il lago è stato riempito dai depositi alluvionali e dall’ingente materiale eroso proveniente dalle montagne.

            Ancora oggi, da un qualsiasi punto panoramico alto sulla valle, sono perfettamente visibili quelli che dovevano costituire i contorni naturali dello specchio d’acqua dal quale, unico isolotto, emergeva la parte culminale di Colle S.Cosimo. A oriente della vallata il Morrone (2061 mt), aspro e scosceso, si estende per venti chilometri e come un’immenso muro incombe  sulla pianura solcata dai modesti fiumi Gizio e Sagittario.

            I Peligni, popolo di stirpe Sabellica, agli albori della Storia, posero stanza proprio in questa conca circondata da alte montagne: una regione la cui posizione e orografia ebbero grandissima importanza nelle vicissitudini  di queste genti. -”Fanno parte dei Peligni -scrive Plinio Secondo nella sua Historia Naturalis- i Corfiniesi, i Superequani e i Sulmonesi”-. Le vestigia, sotto forma di fortificazioni, insediamenti e reperti minuti, riportati alla luce già all’inizio del secolo, ma soprattutto nelle campagne di scavo susseguitesi dagli anni ‘50 in poi, sono numerosissime e testimoniano che già nel periodo protostorico (età del bronzo-prima età del ferro), la regione era densamente abitata e luogo strategico dal punto di vista militare e commerciale.

            -”Attualmente si ritiene per certo che l’uomo fin dall’età della pietra abitò nelle regioni sabelliche perché vi si trovano armi e strumenti di pietra, lavorati dalla mano dell’uomo. -scrive nel 1902 lo storico Maurice Besnier;- (...) Gli uomini nei tempi preistorici abitavano sulle montagne e perciò i resti (...) si trovano sulle montagne”. I numerosi reperti, rinvenuti, classificati e analizzati da numerosi studiosi, non ultimi i sulmonesi De Nino e Mattiocco, sono in gran parte custoditi nei Musei archeologici di Roma e di Chieti.

            E’ evidente che già nel neolitico aggregati di capanne fossero abbastanza diffuse lungo le pendici dei monti, al di sotto dei 1000 metri, in genere in posizione dominante. Questo assetto si andò sempre più consolidando in seguito al mutare del tipo di economia (sempre più stanziale, agricola a valle, pastorale e venatoria sui rilievi) e a consistenti movimenti demografici.

Le mura megalitiche di Monte MitraPer l’inquadramento del processo di urbanizzazione nella valle, particolare importanza riveste l’insediamento del tipo “a capanne” rinvenuto nel 1964 nella zona pedemontana del Morrone, in località Fonte d’Amore, mentre per quanto riguarda i centri fortificati in “opere poligonali”, considerevoli sono il vasto complesso di Monte Mitra (1067 mt s.l.m.), sulle propaggini del Monte Rotella e il sito del Colle delle Fate (724 mt s.l.m.) in territorio di Roccacasale.

-”Esse (le fortificazioni) sono formate solo da grosse e rozze pietre sovrapposte, ma non cementate. Alte mura, ora andate in rovina, circondano le cime dei monti, e i viaggiatori possono notarne i piccoli resti”- scrive ancora Besnier, quando già ai primi del secolo le finalità difensive delle poderose strutture murarie apparivano indubbie. Ma tracce ancora più antiche, del tardo neolitico, affiorano ancora oggi in superficie: pitture rupestri di inconfondibile fattura sono state rinvenute in alcuni sgrottamenti del Morrone, in località S.Onofrio (700 mt s.l.m., Badia di Sulmona) e Balze del Morrone (800 mt s.l.m., Pacentro).

Le pitture in località S.Onofrio       Le pitture in località Balze del Morrone

Sembra sia stato Tito Livio a citare per primo il nome dei Peligni, nel 343 a.c.; forse perché, prima di allora, le vicende di questo popolo erano rimaste discinte dalle guerre e dagli eventi sempre più bellicosi che riguardavano i Romani. Sono molte le teorie avanzate in passato sulle origini di questo popolo; tra tutte, la più cara ai poeti è quella che rivendicava le origini di Sulmona (Sulmo) fino ai Troiani, per via di un certo Solimo, compagno di Enea. Al di là delle leggende sembra invece più verosimile l’appartenenza dei Peligni alla stirpe dei popoli italici; ed è lo stesso Ovidio Nasone a ritenere i suoi conterranei di sicuro ceppo Sabino.

            Prima che i romani estendessero il loro impero fino alla costa adriatica, l’Italia centrale era abitata da popoli confinanti ed affini: Peligni, Marsi, Marrucini, Vestini, Frentani, Sabini e Sanniti; gli stessi popoli che nella cosiddetta Guerra Sociale diedero del filo da torcere agli eserciti di Roma, costituendo la Lega Italica con capitale Corfinio, quella Corfinium che Strabone chiamo metropoli dei Peligni. Nell’anno 666 dalla fondazione di Roma (88 a.C.) con la resa dei Vestini, dei Peligni e dei Marsi, la lunga e sanguinosa guerra ebbe fine. Tuttavia i Romani, benché vincitori, dovettero assecondare le giuste richieste degli Italici, prima fra tutte quella della cittadinanza romana, fino ad allora negata.

            Quando il senato di Roma ridusse tutta la penisola sotto il suo dominio, impose alle popolazioni, le stesse istituzioni e le magistrature dell’Urbe;  tuttavia mai le diverse regioni d’Italia furono ridotte a una somiglianza perfetta e assoluta ma, al contrario, svilupparono ancor più caratteristiche peculiari, grazie soprattutto al territorio che occupavano, che grande influenza ha sempre avuto sul tenore di vita di un popolo.

            Nell’alto medioevo la valle risentì di quell’importante fenomeno dell’incastellamento, di cui tutta la provincia dell’Aquila, ma più in generale l’Abruzzo, portano ora vistose e fulgide vestigia, che rappresentano un aspetto assai importante del patrimonio monumentale, oltre a costituire una forte caratterizzazione del paesaggio. L’origine dei fortilizi è legata alla necessità di difesa e controllo della viabilità e dei nuclei abitativi, in un territorio perennemente instabile e minacciato dopo la caduta dell’Impero Romano. Questa necessità in molti casi portò alla riscoperta e all’utilizzo di siti di epoca preromana, già in possesso di precise caratteristiche difensive.

Pacentro e il castello dei Caldora Alle falde del Morrone, visibile da grande distanza è il castello-recinto di Roccacasale, il cui nucleo originario risale al 925, anno in cui il Duca di Spoleto lamentò il grave bisogno di avere una costruzione fortificata a guardia della conca di Sulmona. A pochi chilometri di distanza verso occidente, ma più in quota, si rinvengono i resti del Castello dell’Orsa (XI sec.), che prende il nome dalla località ove esso sorge. Più a est, verso le sorgenti del fiume Pescara, a chiusura della valle, le Gole di Popoli sono guardate dal Castello dei Cantelmo che, iniziato nell’anno 1015, grande rilievo ebbe dal punto di vista strategico, sia durante la dominazione Normanna che sotto gli Angioini. Alla parte opposta della valle, sotto le propaggini del monte Genzana, altre due impianti fortificati guardano la valle: la torre e il borgo fortificato di Introdacqua, appartenuto alla casata dei Trasmondi e il castello di Pettorano sul Gizio, anch’esso per ben cinque secoli appannaggio del solido e potente feudo dei Cantelmo. A chiudere il cerchio delle opere difensive, che all’epoca per evidenti motivi di comunicazione erano logisticamente disposte sul territorio in modo da essere a vista le une con le altre, a oriente della valle e immediatamente sotto le falde del Morrone sorge il castello dei Caldora con le sue tre torri: nel 1400 perno della difesa Angioina contro gli Aragonesi.

            Dopo il Rinascimento con il riassetto politico della regione, la funzione dei castelli e dei borghi fortificati venne meno e si torno ad abitare e a lavorare terre meno impervie. Nuovo impulso ebbero i grandi insediamenti urbani come quella castrum Sulmo che già sotto Federico II e poi ancora Re Ladislao si era trasformata in una delle città più splendide della regione, tanto da valergli l’appellativo di Siena degli Abruzzi.

            Stando a quanto è giunto fino a noi dal lontano passato, questo versante della montagna, a differenza di quello affacciato sulla Valle dell’Orta, sembra aver rappresentato un luogo veramente speciale dal punto di vista culturale, sociale e soprattutto religioso; in particolare la zona che sovrasta l’attuale abitato della Badia di Sulmona, che già deve il suo nome all’imponente abbazia di Santo Spirito che ivi sorge. Questa, impiantata intorno al 1240 e successivamente ampliata nel ‘400 e ‘600, insieme all’omonimo cenobio costruito sul versante orientale della Majella, rappresenta l’esempio più fulgido delle opere cultuali realizzate da quel Pietro Angeleri, monaco-anacoreta, che proprio su questa montagna riceverà la notizia della designazione al soglio pontificio. Il sant’uomo ai “rumori” e alle distrazioni della valle preferirà il silenzio e la solitudine della montagna, ritirandosi in romitaggio in una grotta più in quota. Molto più tardi, intorno al 1290, di ritorno dalla selvaggia Valle dell’Orfento, in questo stesso luogo egli diede inizio alla costruzione dell’eremo dedicato a S. Onofrio che, inglobando le originarie e povere cellette, per secoli avrebbe dominato dall’alto l’abbazia e la valle.

Il mosaico nel sacello del tempio di Ercole Curino

            La vita del futuro papa Celestino V, pur nella preghiera e nella contemplazione, fu densa di attività e peregrinazioni sulla montagna peligna, tanto da meritargli l’appellativo di Pietro da Morrone. Già a lungo aveva dimorato su questo monte: nel 1260 aveva creato un piccolo eremo, quello di S. Pietro, posto su un brullo cocuzzolo a circa 1400 metri di quota; un altro cenobio, a ridosso di alcune grotte, era sorto in località Vicenne prendendo il nome di S. Maria ad Criptis e restando fino a tempi recenti di incerta identità. Ma una delle prime opere realizzate da Pietro in questa zona fu la chiesetta di S. Maria di Sagizzano, sorta molto più a valle, a ridosso dell’ingresso meridionale del santuario preromano dedicato a Ercole Curino. Questo importante sito archeologico sospeso tra la valle e la montagna, in epoca moderna considerato come i resti di una ipotetica Villa di Ovidio (il poeta latino P.O.Nasone), con gli scavi iniziati intorno al 1957, ha rivelato la sua vera natura di luogo sacro agli dei e alle genti peligne.

            In età italica i luoghi dedicati alle divinità erano posti in genere in zone dotate di una forte caratterizzazione naturale e la spianata su cui sorgeva il tempio, datato tra il IV e il II secolo a.C., certamente lo era se anche oggi, visitando il sito, è impossibile rimanere indifferenti alla suggestione che emana il paesaggio intorno. In questo senso altri santuari sono tornati alla luce; a Corfinio per esempio, e a Cansano sotto le falde della Majella, ma quello di Ercole Curino, come già quello dedicato alla dea Maja, a Cerere e ad Angizia, costituì un culto particolarmente caro alle popolazioni autoctone, al punto che il ritrovamento in situ dello splendido bronzo di sicura scuola lisippea, avvenuto nel 1957, ritraente un Ercole a riposo, riconsegnò definitivamente l’atmosfera di sacralità a questi luoghi e un capitolo fondamentale alla cultura storica della valle.

            -”Nell’antichità offrire un dono agli dei significava avvicinare il cielo alla terra e rendere le azioni umane degne delle attenzioni divine”- (R.Tuteri, Sulmona ‘99). Oggi con la scomparsa di qualsiasi forma di liturgia dalla vita quotidiana, il senso di antichi rituali insieme sacri e profani si fanno sempre più oscuri; ciò che una volta era vissuto con fervore sincero, resta oggi -ove esiste- solo una rappresentazione all’apparenza vuota di contenuti e dai significati sfuggenti. 

            A noi attenti osservatori, umili paladini e garanti delle radici di una cultura popolare, resta solo il ruolo un po’ ambiguo di spettatori curiosi. O è possibile, alle soglie del terzo millennio, accedere di nuovo ad una realtà virtuale fatta di luci, odori e silenzi che su queste balze rocciose è pur possibile rinvenire? Solo allora forse sarà possibile penetrare il segreto di una spiritualità ancestrale legata indissolubilmente alla natura, in questi luoghi dove l’onda lunga della storia, giunta fino a noi, proseguirà intatta nei secoli a venire.

Giancarlo Guzzardi  - © diritti riservati