Net Ready
Amo la lettura al punto che, periodicamente, per fare spazio nella libreria che trabocca di volumi, devo necessariamente eliminare qualche testo: una scelta non troppo azzeccata, qualche doppione. Tutto questo a malincuore. Allora ho adottato il sistema di donarli a biblioteche pubbliche, così l'animo trova un po' di pace.
Quando ami il libro, quello fatto di carta, con il passare degli anni sviluppi un'attenzione maniacale, verso quelli che sono anche gli aspetti esteriori di una pubblicazione; così le forme, i colori, l'odore, la consistenza, le dimensioni, si tramutano in una serie di sensazioni che si uniscono al piacere intellettuale della lettura.
Quando riesco a scovare un buon libro, con il titolo ed una copertina che promettono tanto quanto il suo spessore, pregusto già l'attimo in cui a sera, sul divano, nel silenzio della casa, accendo una sigaretta e lo apro. Ma prima lo passo in rassegna: lo osservo, lo soppeso, ne studio la copertina, la grafica, i risvolti interni ed infine apro alla pagina dell'introduzione. Non prima di avere letto le note sull'autore.
Dopo, inizia un viaggio che porta la mente lontano, ad immedesimarsi nei luoghi e nei personaggi, nelle atmosfere e nelle emozioni del racconto. Un viaggio che può durare una sola notte o protrarsi stancamente per settimane.
In genere, difficilmente ciò che leggo delude le mie aspettative; ho sviluppato un fiuto tutto particolare per scovare libri, autori e racconti che soddisfano la mia sete di conoscenza per tutto ciò che parla di storia, di popoli, di paesi lontani, di natura e soprattutto di avventura. Parola questa purtroppo ormai usata e abusata, che fa del pianeta un enorme palcoscenico, dove comodamente seduto davanti ad uno schermo puoi vivere in diretta i drammi del nostro tempo.
Eppure, nei recessi del nostro quotidiano, anche a due passi da casa, l'avventura, quella vera, fatta essenzialmente di sensazioni interiori, è lì che aspetta; basta solo rimettere in moto i nostri sensi assopiti, non più adusi ad osservare le piccole cose, a volte apparentemente insignificanti, che costellano il mondo che ci circonda.
Recensioni
Un viaggio nell'altra America, quella vera, della provincia, delle piccole città dimenticate nell'immenso territorio della confederazione; l'America moralista e conservatrice, l'America razzista e rurale, l'America della strada, dei motel, dei fast food, del consumismo, del benessere ridondante, della tecnologia inutile.
Bill Bryson percorre in macchina 38 degli stati d'America, dai deserti del New Mexico alle Montagne Rocciose, dalla costa ovest alla costa orientale, per ritrovare qualcosa da lui vissuta quando era poco più che bambino.
In questo peregrinare a marce forzate, l'autore scopre in fondo che quell'America non è cambiata granché. Una dimensione in cui tutto sembra essersi fermato agli anni '50, a quel sogno americano, l'American way of life, che forse è rimasto solo un sogno, dietro la patina di una nazione ricca e potente che Crede in Dio (In God We Trust) ed ha una missione da compiere.
America perduta è un affresco, giocato a pennellate molto espressive, a volte con una ironia feroce, di uno sterminato paese che continua a credere, a immaginare, a vivere fra le pieghe di un sogno "domestico" e provinciale. Questo sogno, nonostante il mondo stia cambiando a velocità stratosferica, accomuna ancora milioni di uomini disseminati su un territorio nelle cui vene da sempre scorre sangue malato. Vene di un paese nei secoli alimentate con la violenza, la distruzione di altre culture, altre popolazioni, altri Uomini, fino ad esportare ed impiantare altrove ed a forza un modello di democrazia e libertà, certamente discutibile, sicuramente spesso non desiderato né richiesto.
Edizioni Feltrinelli, Milano, 2002
"Il vecchio ordine – tutta l’Asia centrale sovietica – si stava sbriciolando e le sue cinque repubbliche, create artificialmente da Stalin, avevano dichiarato la loro sovranità pochi mesi prima. Uzbekistan, Tadžikistan, Kazakhistan, Turkmenistan, Kirgizsta: all’improvviso la marea sovietica si era ritirata da queste oscure nazioni musulmane e le aveva lasciate nude con la loro indipendenza. Che cosa sarebbero diventate? Mi domandavo se si sarebbero gettate nella fornace islamica o se sarebbero riconfluite in una massa comunista."
Un lungo viaggio nell'Asia centrale, attraverso cinque delle ex repubbliche dell'immenso impero sovietico, per scoprirne la gente, il paesaggio, il passato e lasciarci un affresco vivo e allo stesso tempo crudo, nella sua allucinante realtà, delle condizioni globali della vita in una dimensione spesso davvero remota dal mondo occidentale. Colin Thubron, entra nel cuore segreto dell'impero di Tamerlano, segue la Via della Seta, esplora il favoloso Pamir, restituendoci immagini, suoni e odori di una terra da sempre oggetto di miti e leggende.
Il luogo geografico è il territorio immenso dell'Asia centrale e l'autore si muove all'interno dei confini di quella che fu l'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Una terra che per tanti decenni rimase celata agli occhi del mondo, scomparsa insieme ai suoi milioni di abitanti, segnata sulle carte geografiche, ma muta e silenziosa sotto la cappa del regime comunista. Immediatamente dopo il crollo del regime, Thubron si mette in viaggio, seguendo la Via della seta, raggiungendo Bukhara, il lago d'Aral, Samarcanda e poi a est, il Pamir, ai confini di un'altro grande colosso: la Cina.
Intorno all'autore le statue di Marx e Lenin scompaiono giorno dopo giorno, spingendosi fino all’estremo Est per esplorare il remoto Pamir, per toccare con mano la situazione di Uzbekistan, Tadžikistan, Kazakhistan, Turkmenistan e Kirgizistan, cinque delle neonate repubbliche che si accingono a scegliere un modello diverso da quello comunista, in bilico tra apertura ai modelli occidentali di democrazia e fondamentalismo islamico, che preme sempre più alle porte.
Edizioni Feltrinelli, Milano, 2003
Discendendo in piroga il tratto navigabile più lungo del fiume Congo, da Kisangani fino alla capitale Kinshasa, una distanza di 1736 chilometri, Tayler conduce il lettore nel "cuore di tenebra" dell'Africa nera, espressione che non è un luogo comune, retaggio dei primi esploratori dell'Africa subsahariana, ma una realtà concreta che anche ai nostri giorni sfugge a qualsiasi schema di considerazione e catalogazione.
Come ai tempi di Josef Conrad, viaggiare in questi luoghi vuol dire dare una fisionomia a zone che fino a pochissimi anni fa, sulle carte geografiche si identificavano con una superficie bianca, non disegnata. Il viaggio in questa regione diventa un viaggio verso un buco nero: riempire il bianco di queste zone con qualcosa che parli di uomini, società, usi, costumi e culture è il significato originario di Cuore di tenebra, il romanzo di fine '800 di Conrad, ma anche quello attuale di In Congo di Jeffrey Tayler.
In effetti la cosa che più colpisce del racconto di Tayler -che si legge davvero tutto d'un fiato- è che nella narrazione si è trascinati con la mente in avvenimenti che ad un certo punto non riescono più a collocarsi in un tempo e in uno spazio ben preciso; come se tutto ciò in cui si imbatte l'autore durante la interminabile e a volte angosciante discesa del fiume, fossero le stesse cose, la stessa atmosfera selvaggia, gli stessi pericoli, le stesse incognite, la stessa paura, la stessa pulsante violenza incontrata e vissuta da Stanley. Una realtà dove ogni regola, valore o convenzione saltano, sostituiti semplicemente da un istinto atavico di sopravvivenza.
Il libro non è solo il resoconto di un'avventura con la "A" maiuscola, ma anche un viaggio nella storia, nella natura, nella politica di un paese oppresso e lacerato da lotte intestine, tratta degli schiavi, sfruttamento coloniale, fino all'autodistruzione perpetrata da un dittatore avido, megalomane e sanguinario.
Edizioni Neri Pozza, Vicenza, 2003
"Aspettavamo l'ospite d'onore, che finalmente comparve, eterea eppure ferrea, angelica eppure maliziosa, retta con dolce delicatezza come una porcellana preziosa. Aveva novant'anni ed era sorda come una campana, ma ancora un paio di anni prima si era spinta fino nel Nepal. E si diceva che settantenne avesse disceso l'Eufrate su zattere fatte con vesciche di porco, secondo una moda dei luoghi già accertata dall'accigliato prussiano von Moltke, consulente militare di un sultano di Costantinopoli. Insomma, avevamo davanti a noi, con noi, tra noi, uno dei miti viventi (allora) del viaggio: Freya Stark. La "Nomade appassionata", come recita il titolo di una sua biografia."
Questo è quanto scrive Mario Biondi agli inizi degli anni '80 quando, ad serata dedicata ad un premio letterario, la Stark ne è l'ospite d'onore.
L'esploratrice e scrittrice inglese Freya Stark, nata a Parigi nel 1893, ultima erede di una stirpe di grandi viaggiatori inglesi, è stata una figura leggendaria del nostro secolo per i suoi viaggi avventurosi nel Medio Oriente, di cui ha lasciato appassionanti descrizioni nei suoi numerosi libri, tra cui Le valli degli assassini.
Legata alle personalità più in vista del suo tempo, del calibro di Lawrence d'Arabia per intendersi, svolse anche importanti missioni per il Foreign Office, il Ministero degli Esteri britannico. Crocerossina sul Carso durante la prima guerra mondiale, la Stark si recò in Oriente nel 1927, organizzando fino al 1937 spedizioni in Libano, Siria, Iraq, Persia ed Arabia. Allo scoppio del nuovo conflitto mondiale fu impegnata nello Yemen e in Egitto. Il dopoguerra la vide viaggiare ancora in tutto il mondo. Prima di ritirarsi definitivamente ad Asolo, suo paese adottivo, fu capace di compiere un'ultima spedizione in Nepal all'età di 88 anni. E' Morta nel maggio del 1993, pochi giorni dopo aver compiuto 100 anni.
Nel lungo racconto di questo
suo libro, agli inizi degli anni Trenta
del Novecento, con qualche guida del luogo a volte poco affidabile,
parte a cavallo dall'Iraq e attraversa impavida le
montagne del Luristan iraniano diretta alle "Valli degli Assassini", i
rifugi medievali della setta del Grande Vecchio della Montagna, la cui
storia si confonde con la leggenda, che vuole derivare l'appellativo di "assassini"
all'uso sfrenato e coatto dell' hashish, da parte dei suoi adepti, conosciuti
come "hashishin".
In tutto questo Freya Stark è assolutamente vera, naturale, spontanea, per
niente a disagio, anche nelle situazioni che avrebbero preoccupato seriamente
qualsiasi altro viaggiatore. Lei si immedesima in tutto ciò che vive, che
ascolta, che vede, fino a divenire lei stessa essenza del "viaggio".
Ci sono viaggiatori che scrivono.... e ci sono giornalisti che viaggiano.
Gli uni si lasciano dietro il proprio paese, la propria cultura, i soliti luoghi comuni, immergendosi pienamente nei posti che attraversano, senza una meta né una scadenza, facendo del viaggiare il fine stesso del viaggio; gli altri si portano dietro soprattutto la propria cultura, i modi stereotipati di vedere le cose, i luoghi comuni, prendendo di un paese e di un popolo ciò che più colpisce la propria suscettibilità e commentandola di conseguenza, non perdendo mai di vista un "punto di arrivo" ed una scadenza, viaggiando per la tangente, vedendo e riflettendo su tutto e niente.
Sara Wheeler appartiene a questa seconda categoria; del suo viaggio in Cile, così tanto desiderato e pianificato, a volte da' l'impressione sia vissuto come una pillola amarognola che bisogna mandare giù più in fretta possibile, come un sacrificio necessario, portato avanti con pazienza e stoicismo.
Nonostante le frequenti escursioni nella storia e negli aneddoti di questo paese, la Wheeler non da mai l'impressione di entrare profondamente in contatto con i luoghi, le persone, la cultura. La sua impalcatura di schemi e pregiudizi occidentali o, ancor più quell'affettato senso di superiorità tipicamente anglosassone, la portano a riflettere tante cose - che non riesce a spiegarsi in modo diverso -, con divertimento accondiscendente, quasi irriverente; stravaganze, saranno per lei, come le annose contese tra il Cile e l'Argentina.
La stanchezza dei posti e delle situazioni in cui sembra in fondo non trovarsi mai bene, fan sì che il desiderio di lusso e comodità spesso prenda il sopravvento, nella narrazione come nel viaggio, dando l'impressione che l'autrice si sia trovata molto più a proprio agio in conviviali consumate all'ombra di meravigliosi giardini, tra piatti prelibati e vini di marca, in compagnia di connazionali o gente ricca e dai modi gentili, a cui certamente forse un passato discutibile può anche perdonarsi.
Insomma ci sono molte cose de Il paese sottile che non mi hanno assolutamente convinto; come il fascino di una natura grandiosa, vissuto più come sentimento bucolico, di chi vive profondamente immerso in uno stile di vita ed un ambiente profondamente diverso, che come emozione vera e vissuta. Quel qualcosa di stridente nelle sue descrizioni della wilderness dalla bellezza mozzafiato, da cui sembra alfine sempre fuggire, sembra mitigarsi soltanto nelle ultime pagine, che lasciano spazio alla malinconia per la partenza imminente.
Irrequietezza tipica del Viaggiatore quella della Wheeler?...... non so, forse. Ma queste pagine, più di altre, mi hanno fatto pensare al Viaggio come a qualcosa che può sì portare ai confini del mondo, meglio però con una carta di credito su cui contare, un'agenzia di viaggi a portata di mano, credenziali che aprono porte chiuse ed un buon letto in albergo alla fine di tutto.
Sui giudizi severi espressi nei confronti di Allende e Pablo Neruda, non so davvero cosa pensare!
Edizioni Neri Pozza, Vicenza, 2004
"I libri di Cino Boccazzi hanno il potere di emanare come una nostalgia del viaggiare di una volta.", scrive Stefano Malatesta, scrittore e viaggiatore a sua volta.
In effetti molti personaggi come Boccazzi sembrano nati per ripercorrere le tracce profonde lasciate in lontane contrade pregne di storia millenaria da predecessori più illustri, di cui difficilmente l'aurea epica, quasi leggendaria a volte, riesce a forare quell'ambito stretto appannaggio di pochi appassionati di viaggio e letteratura di viaggio.
Con personaggi del calibro di Freya Stark, ricordo vivo nei suoi pensieri, Cino Boccazzi introduce questo libro: La via dell'incenso; il cui solo titolo, insieme ad una suggestiva immagine di copertina, è in grado di stregare, inchiodando il lettore alla poltrona fino al punto da evocare gli odori del viaggio, i sapori, le visioni, le intime emozioni, portando a spasso la mente attraverso quel crogiolo di paesi e culture, ricompresi in un nome: Oriente, abbattendo i limiti dello spazio e del tempo e riportando fino a noi situazioni e personaggi storici mai sopiti, dietro le pagine di una Storia delle antiche civiltà che non manca mai di affascinare e costituire allo stesso tempo un richiamo fortissimo, quello a cui alcuni uomini, ieri e oggi, non hanno saputo sottrarsi.
Cino Boccazzi è nato ad Aosta nel 1916. Ha compiuto ventidue traversate nel Sahara, dodici viaggi nello Yemen, Arabia Saudita, Siria e Giordania. Biografo di Lawrence d'Arabia, ha scritto vari romanzi e libri di viaggio.
Edizioni Neri Pozza, Vicenza, 2003
In vespa, da Roma a Saigon.
Dagli anni Sessanta in poi migliaia di ragazzi italiani ed europei hanno deciso di "imbarcarsi" in un viaggio verso l'oriente, per i motivi più svariati, ma quasi sempre alla ricerca del senso della vita e di emozioni inedite. Automobili, treni, aerei, navi, autobus, moto, biciclette ed i semplici piedi hanno trasportato questa massa di giovani attraverso i paesi dell'est, la Turchia, l'Iran, l'Afghanistan, il Pakistan, l'India e, più recentemente, i paesi indonesiani sino in Vietnam. L'autore di questo libro-diario di viaggio, Giorgio Bettinelli, a differenza di migliaia di suoi predecessori, decide di scrivere, raccontare la propria esperienza e trasmettere le proprie emozioni.
In una sorta di scommessa con se stesso, con il destino e con una realtà dalle innumerevoli sfaccettature, per cui a volte la parola impossibile sembra non esistere, in sella ad una Vespa 125 parte per un lungo viaggio in Oriente, partorito assolutamente per caso, ma che ben presto da sogno si trasforma in realtà. Attraversa decine di nazioni, incontrando centinaia di persone spesso curiose e interessanti, talvolta arroganti e pericolose, alternando momenti di euforia a momenti di sconforto, ma sempre assolutamente immerso nella vita dei luoghi che attraversa, da vero viaggiatore e non da turista, ma soprattutto non smettendo mai di credere ciecamente al suo incredibile sogno di attraversare la groppa di un enorme pachiderma in sella ad un esile fragile moscerino. L'autore percorre migliaia di chilometri (24.000 per l'esattezza), seguendo strade di ogni tipo, tra guerre civili e paesi miracolosamente in pace, lasciando al lettore quella impressione forte che porta a divorare in un attimo queste pagine mai ridondandi di informazioni e in uno stile asciutto e sintetico, che non manca di coinvolgere ed offrire un vivace ed acuto affresco degli ambienti e delle culture incontrate.
Edizioni Feltrinelli, Milano, 2003
Oasi proibite è "anche" la cronaca del viaggio più celebre ed affascinante compiuto nel 1935 in compagnia di Peter Fleming, corrispondente del "Times", dalla scrittrice ginevrina Ella Maillart, morta nel 1997 alla veneranda età di 94 anni. Perchè il libro, oltre a essere fresco ed asciutto diario di viaggio, attraverso paesi in fibrillazione per avvenimenti che ne ridisegneranno in breve il contorno fisico e politico, è soprattutto l'espressione dei sentimenti profondi di una rappresentante del gentil sesso della borghesia mittle europea, alle soglie di una catastrofe epocale, quello degli orrori dell'avvento del Terzo Reich e della Seconda Guerra Mondiale. L'irrequietezza di chi rifugge la visione "troppo sbrigativa" ed opportunistica della vita occidentale o di chi scappa da eventi politici e sociali che la ragione non sa più spiegarsi. La ricerca di un rifugio per l'anima nei silenzi di "terre desolate", nel vento, nel crepitare del fuoco di un bivacco, nella stanchezza serale di una marcia nel sudore e nella polvere, l'immersione nei gesti quotidiani di una vita esotica, agli antipodi della nostra cultura.
Un'impresa per l'epoca, ai limiti dell'estremo: l'attraversamento della Cina da est a ovest, fino in Kashmir, tra deserti e alte montagne, reso difficile e pericoloso da guerre civili, scorrerie di predoni, difficoltà di approvvigionamento, di comprensione di lingue e dialetti, ma soprattutto il misurarsi con l'essenza della mentalità orientale. Le pagine del libro sono animate, così come il viaggio, dall'anomalo sodalizio che si stabilisce fra la Maillart, irriducibile nomade solitaria e il suo compagno inglese, imperturbabile e ironico gentleman inglese.
edizioni EDT, Torino 2001
"Paropamiso", pubblicato per la prima volta nel 1963, è il libro dove Fosco Maraini racconta, a suo modo, la spedizione alpinistica del C.A.I. di Roma al Saraghrar Peak, nella catena dell'Hindukush. Paropàmiso appunto, è il nome antico della regione che si estende alle pendici della catena dell'Hindukusch, a cavallo degli odierni confini tra Pakistan, India e Afghanistan.
Fosco Maraini, antropologo, etnologo, alpinista, orientalista, fotografo e scrittore, nel corso di una vita ha avuto l'opportunità di percorrere in lungo e in largo molte regioni dell'Asia. Così il libro esce completamente fuori dagli schemi di qualsivoglia letteratura di montagna o diario di spedizione alpinistica, per diventare fin dalle prime battute saggio su uomini e culture, tornando spesso a rispolverare un tema a lui caro, quello di una visione filosofica della vita, spiegata attraverso i concetti di endocosmo ed esocosmo. La spedizione acquista per i partecipanti, giovani universitari alle soglie di un decennio di sogni e fermenti, il sapore di una "vivissima esperienza interiore".
Accanto agli incontri con uomini e culture, Maraini dipinge in brevi ed essenziali pennellate le abbacinanti meraviglie della natura, di terre dove nulla sembra rientrare nella dimensione ordinaria, e così le montagne, i deserti, i passi alpini, i colori, i sapori, gli odori, i sentimenti.
Ma quello che forse più colpisce leggendo questo libro è l'intelletto eclettico dell'autore, che sciorina pagina dopo pagina una cultura a 360° e cognizioni di carattere storico, antropologico, filosofico e religioso, spesso sconosciute ai più. Così la figura del condottiero Alessandro Magno e il suo incredibile viaggio per 8 lunghi anni attraverso luoghi che ancora oggi possono a ragione essere considerati selvaggi ed fuori dal mondo. Così il capitolo sull'Islam, per comprendere la linfa che muove ogni cosa in questa parte del mondo. Così le pagine dedicate a "popolazioni fossili" come i Kafiri, che in valli ed oasi sperdute tra le montagne del Paropàmiso, sopravvivono ancora, al di fuori del tempo e della Storia.
Mondadori Editore, Milano 2003
"Sabbie arabe" è il resoconto dei viaggi compiuti da Wilfred Thesiger, grande viaggiatore ed esploratore britannico, in un arco di tempo che va dal 1946 al 1950, nell' Empty Quarter o Quartiere di Allah, l'immenso deserto della penisola araba.
Sono viaggi fuori del tempo, tra lunghe marce a dorso di cammello e soste nelle gelide notti del deserto, dove, tra silenzi e colloqui, fame, sete e pericoli sempre in agguato, Thesiger condivide in tutto e per tutto la vita dei Beduini, popolo fiero e generoso, religioso e violento, fatalista e solidale, fino al punto da idealizzare una cultura che forse non è mai coincisa con un popolo in particolare.
L'ideale del vero Beduino e della sua cultura, integra dai camuffamenti e condizionamenti dell'occidentalizzazione, non abbandonerà mai le riflessioni del viaggiatore, che a dire il vero apparirà spesso come un inguaribile sognatore.
L'atmosfera che ammanta le sue note di viaggio, spesso fanno dimenticare che i fatti di cui narra, sono a noi quasi contemporanei ed egli piuttosto un viaggiatore di altro secolo.
Ma forse questo è il pregio del libro, portare il lettore fuori del tempo e dello spazio, perchè non c'è nulla di più crudo della rivelazione che il sogno di una Arabia felix non esiste più da tempo, come altri autori e viaggiatori prima e dopo di lui constateranno con amarezza.
Ma la vita del deserto, aspra e affascinante, di cui Thesiger parla, a cui nessun uomo può restare insensibile dopo averla conosciuta.", lui l'ha vissuta davvero, a piene mani, fino a diventare insofferente verso la sua di cultura, la sua terra e i suoi conterranei.
Neri Pozza Editore, Vicenza 2002
Fotografo, scrittore, documentarista, grande viaggiatore ed esploratore Folco Quilici ha rappresentato per decenni un punto di riferimento in fatto di viaggi e avventure nei mari, nelle foreste tropicali e in tutte quelle terre che hanno sempre fatto sognare l'inconsio collettivo. Alla sua vasta opera cinematografica di film e documentari, da anni si affianca una non meno importante opera editoriale costituita da saggi e romanzi ambientati in "terre lontane".
Le Americhe sono il naturale compendio ad una serie documentaristica che portava il titolo di America americana, opera in cui il regista percorre il continente americano dai ghiacci dell'Alaska alle desolazioni tempestose della Terra del Fuoco, alla ricerca delle tracce di quegli uomini che, prima della conquista del Nuovo Mondo da parte delle armate spagnole e del successivo sconvolgimento storico-sociale conseguitone, diretti discendenti di un manipolo di cacciatori-raccoglitori che attraverso lo stretto di Bering avevano pian piano colonizzato l'intero continente, hanno continuato per oltre 5 secoli a rappresentare nonostante tutto le vere radici antropologiche e culturali delle Americhe, conservando caparbiamente le loro tradizioni, gli usi, i costumi, nonostante lo sradicamento estremo operato nei loro confronti dal pensiero, dalla cultura e dalla religione del Vecchio Mondo.
Un percorso questo che, dal 1957 a oggi, ha portato l'autore ad essere uno tra i più profondi conoscitori di questo sconfinato continente, dei suoi paesaggi, delle sue genti.
Oscar Mondadori Editore, Milano 2004
Siberia: nome che evoca nella mente fascino e repulsione allo stesso tempo.
Fascino: come tutto ciò che è esotico e da sempre fa parlare di se; agli antipodi del nostro mondo e del nostro modo di essere, terra di avventura ed avventurieri, preti, missionari e cacciatori, profeti, invasati ed assassini, ciarlatani e gentiluomini, comunisti e reazionari. Terra sconfinata, dove la natura purissima e tremenda detta legge. Chi non ricorda gli spazi immensi del film Dersu Uzala?
Repulsione: per i misteri insondabili, lo spirito violento e bellicoso delle sue popolazioni nella storia dell'Occidente, i Gulag, i milioni di morti dimenticati, l'inquinamento ambientale. Come se un gelo tremendo pesasse come una maledizione sulla più grande delle ex province sovietiche.
Alla fine del libro di Thubron resta nell'animo l'impressione di una grande desolazione, negli spazi e nello spirito; un miasma di corruzione, decadenza, stoicismo che sembra permeare tutto e tutti, come le scorie radioattive che avvelenano fiumi, terra, laghi e mare.
L'autore ci svela ciò che nessun satellite o notizia in tempo reale potrà trasmetterci, portandoci dentro le storie, dentro gli uomini, dentro la Siberia in un modo che ha dell'incredibile: il Viaggio, Thubron è salito e sceso da treni, barche e camion, percorrendo 25.000 chilometri, risalendo il fiume Jenissei fino all'Artico, attraverso la Mongolia e poi a Est verso il Pacifico, sfatando persino il mito avvincente della Transiberiana.
Un viaggio fisico e metafisico il suo, nel passato, nel presente e nel futuro di una delle regioni più remote, pure e devastate della terra.
Editrice Ponte alle Grazie, Milano 2000
"Serge si rizza un pò più sulla schiena, all'indietro, poi lentamente si fa immobile, gli occhi spalancati, al di là del mondo, sull'eternità, sull' immensità del cielo, fissi.
Ho male al cuore, la testa improvvisamente vuota d'ogni pensiero. Rimango prostrato, inerte per un lungo momento, piegato in due il capo sulle ginocchia."
Il momento più angoscioso della tragedia, la morte dell'amico e compagno di cordata, così come raccontata dal protagonista, Renè Desmaison che, in compagnia di Serge Gousseault, l'11 febbraio del 1971 intraprende la direttissima allo Sperone Walker delle Grandes Jorasses, nel gruppo del Monte Bianco
Scalata invernale ai limiti della resistenza, per le proibitive condizioni del tempo; Gousseault soccomberà agli stenti, Desmaison rimarrà, in tutto, 14 giorni in parete, appunto.......342 lunghissime ore.
Il racconto incalzante del dramma vissuto dai due alpinisti francesi, minuto per minuto, insieme all'angoscia di Simone, moglie di Renè e Nanouk, fidanzata di Serge, nella lunga attesa a valle, fino al complesso e sofferto recupero di Desmaison e del corpo senza vita del suo compagno.
Un classico dell'alpinismo "eroico" e la testimonianza significativa delle condizioni durissime che fanno dell'alpinismo invernale la disciplina più severa delle attività di montagna.
Editrice Dall'Oglio, collana Exploits, Varese 1982
Quello di Giampiero è un libro che, prima ancora di sentirne il peso, mi ha stregato per la sua copertina. Chi è addentro alle cose dell'alpinismo comprende subito che l'immagine si riferisce a qualcosa di poco allegro; effettivamente ritrae un momento drammatico e dalla fotografia viene fuori una sensazione profonda di isolamento, solitudine, silenzio e disperazione. Tutto ciò che l'autore deve aver vissuto in quelle drammatiche lunghe ore.
Quella fotografia mi ha tirato dentro il racconto, che non poteva avere titolo più azzeccato: tutta la durezza e il freddo che a volte l'alpinismo si porta dietro.
Libro di memorie dunque, profonde, complessive, che chiudono definitivamente una fase lunga e intensa che Di Federico ha dedicato al mondo della montagna, quello vero, vissuto in un immersione totale.
L'addio è fermo e definitivo, ma senza rimpianti. Atteggiamento ammirevole questo, di chi è riuscito a razionalizzare il tumulto di emozioni che la montagna ispira; di chi, attraverso l'alpinismo, ha conosciuto i momenti più elevati ma anche gli scoramenti più profondi.
Pochi sono quelli che riescono a uscire dal giro, senza sentire lacerante il richiamo dell'aria leggera che ti circonda quando lassù, su una cresta aerea del monte, senti tra le mani la roccia rugosa che sostiene salda la tua vita.
Editrice BAG, Chieti 1998
Appennino d'inverno, cronache dell'alpinismo invernale sui monti dell'Appennino Centrale.
Cosa dire del libro di Vincenzo Abbate, se non che è un'opera che si pone come pietra miliare tra quelle destinate al difficile compito di dare lustro ad un secolo di attività alpinistica sull'Appennino Centrale, attività spesso avvolta dalle nebbie del tempo e nel silenzio dei personaggi schivi e modesti che l' hanno creata.
Il lavoro, dalla ricerca minuziosa, dedicato in particolar modo alla pratica più severa dell'alpinismo, quella invernale, rende possibile una sistematizzazione a livello storico e documentativo, di un numero veramente impressionante di salite, effettuate sui maggiori massicci montuosi a cavallo tra Lazio, Abruzzo e Marche, dalla fine dell'800 ad oggi.
Opera che rende onore all'autore, non nuovo a ricerche di questo genere, che in passato ha dato alla luce altri scritti interessanti apparsi su varie riviste.
Seppure parziale come campo d' indagine -mancano all'appello alcune importanti zone della dorsale montuosa- è da considerarsi lavoro unico nel suo genere e punto di riferimento per chiunque si appresta ad indagare sul trascorso storico dell'alpinismo nelle terre del centro meridione.
Edizioni Andromeda, Colledara (TE) 1995