Archeo
Le origini protostoriche della transumanza
“.....passo dietro passo, sulla grande traccia millenaria di quella via che andava dai litorali dell’Adriatico fino al cuore più segreto dell’Appennino. L’avevano segnata antichissime genti nelle migrazioni stagionali o definitive, seguendo forse l’istinto loro o il cammino degli astri o i colori dell’orizzonte. Poi era diventata la strada per la transumanza degli armenti e delle greggi; una lunga strada verde: la Via della Lana.”
Così Franco Ciampitti, nella sua opera “Il tratturo” (Napoli, ‘68), descrive le radici antiche della transumanza, il suo rapporto intimo con il cammino dell’Uomo, l’evolversi come filo conduttore di molte vicende che nel corso dei millenni caratterizzeranno la vita delle popolazioni al di qua del Mediterraneo e che ancora oggi scandiscono il ritmo di vita delle tribù nomadi del Nord Africa.
Le radici della transumanza
Se nel corso dei secoli dell’età moderna, la pastorizia costituì carattere primario nei rapporti economici e sociali dell’Italia centromeridionale, in età protostorica l’allevamento e l’utilizzo di animali resi domestici diede origine ad un vero e proprio stile di vita, al punto da condizionare in maniera incisiva l’organizzazione sociale, gli usi, i costumi, i tipi di insediamento e quindi le vicende storiche nelle varie epoche.
Per quanto riguarda l’Abruzzo, nella non facile ricostruzione delle vicende che seguirono il passaggio dal periodo Paleolitico al Neolitico (Mesolitico, circa 10.000 anni fa), bisogna considerare tre aspetti fondamentali: l’acquisizione da parte dell’uomo dell’agricoltura alla fine del VI millennio a.C. (coltivazione dei cereali: grano, orzo e farro); la nascita dei villaggi stabili e la comparsa nella vita quotidiana della ceramica.
Dai ritrovamenti in tutta la regione, sembra che la presenza dell’uomo in Abruzzo risalga almeno a 700.000 anni fa. Sin dal Paleolitico le montagne abruzzesi sono state frequentate da bande di raccoglitori-cacciatori; numerosi sono infatti i reperti raccolti in vari siti, che attestano un uso molteplice e diversificato della montagna e l’utilizzo delle sue risorse (caccia ai mammiferi, raccolta di frutta, radici, bacche e ricerca della selce, materia prima insostituibile per la costruzione di qualsiasi strumento dell’epoca. Questi luoghi costituivano per i nomadi del paleolitico, accampamenti stagionali o destinati a specifiche attività (industrie litiche).
-”Con gli inizi del Neolitico si verifica una vera e propria rivoluzione nel rapporto dell’uomo con l’ambiente, in particolare nel passaggio da forme di economia di sussistenza legate alla caccia e alla raccolta di frutti spontanei della natura, a nuove forme economiche collegate all’introduzione sistematica dell’agricoltura. (...) Rispetto alla fascia pedemontana, interessata da tali forme di popolamento permanente, và distinguendosi un’area montana a quota più alta, con forme di frequentazione stagionale connesse all’allevamento transumante ed allo sfruttamento delle risorse montane.”- (M.P.Moscetta, Neolitico ed Età del Rame, Teramo 1996).
In pieno Neolitico, (tra il V e il IV millennio) in Abruzzo il modo di vivere prevedeva insediamenti collocati lungo la fascia costiera e sui terrazzi fluviali posti nelle valli solcate da fiumi e torrenti che dalle montagne appenniniche scorrevano in direzione del mare Adriatico (vedesi i grandi siti neolitici della Val Vibrata, Val Pescara, Valle Giumentina). La complessa orografia delle aree interne della regione, frenò per molto tempo l’espansione delle popolazioni autoctone che, generalmente attestate lungo le coste, premevano verso l’interno sempre più incalzate da nuovi ceppi di genti provenienti dall’oriente attraverso i Balcani e la vicina Illiria. In queste aree montuose comunque, gli insediamenti erano generalmente ubicati nei pressi di bacini lacustri (piana dell’Aquila, Valle Peligna, lago del Fucino) e qui si avranno infatti negli ultimi decenni i ritrovamenti archeologici più consistenti.
Per termine Neolitico è universalmente inteso quella profonda modificazione delle attività economiche umane, che sostituisce la ricerca delle risorse naturali (raccolta e caccia) con la domesticazione di alcuni animali e la coltivazione elementare di determinate piante. Quest’ultima attività poté affermarsi con relativa facilità perché le comunità di raccoglitori, cacciatori e pescatori conducevano ormai un genere di vita abbastanza sedentaria. Ma questo non basta a spiegare l’insorgere dell’agricoltura e la sua completa affermazione; secondo Radmilli infatti -”...la maggior parte degli studiosi è concorde nel ritenere che la causa principale del sorgere dell’agricoltura vada ricercata nelle situazioni climatico-ambientali che si verificarono alla fine della glaciazione würmiana.”- E` indubbio però che a questa lenta ma sostanziale modifica nello stile di vita della razza umana concorsero più fattori, non ultimo l’esplosione demografica e la presenza allo stato selvatico, in particolari territori fertili, delle graminacee. E` questo il momento nel quale l’uomo, ormai agricoltore, riuscì per la prima volta a modificare in suo favore, entro certi limiti, alcuni ambienti e alcuni paesaggi attraverso il disboscamento dei terreni messi a coltura.
Come l’uomo sia arrivato all’addomesticamento degli animali è un problema tuttora non risolto e numerose sono le ipotesi in merito. -”Un dato è certo, cioè che l’addomesticamento fu possibile per alcune specie “di un certo grado sociale”, dunque per quegli animali che vivevano in greggi, in mandrie ed avevano quindi relazioni sociali con i propri simili.”- (Radmilli, I primi agricoltori in Abruzzo, Pescara 1997). Dopo il cane (o meglio il lupo), che vivendo nei pressi degli accampamenti si nutriva dei rifiuti dell’uomo, furono gli ovini i primi ad essere addomesticati, pecore e capre, che con la carne e il latte andarono ad integrare l’alimentazione basata sui prodotti agricoli.
Probabilmente insieme a nuclei di agricoltori impegnati nell’addomesticamento e quindi all’allevamento, furono presenti in altri scenari gruppi diversi di genti, con una diversa economia. Popolazioni di pastori arrivarono infatti in Europa provenendo dagli altopiani dell’Anatolia, circa 4.500 anni fa. I bacini fluviali costituirono il terreno lungo la quale le ondate colonizzatrici, partendo dai litorali, si diffusero, risalendo le vallate lungo i corsi d’acqua. L’esistenza delle comunità neolitiche è segnata dalle tracce di dimore stabili, differenti rispetto agli accampamenti dei cacciatori, pescatori e raccoglitori delle precedenti epoche.
Mentre per l’agricoltore era necessaria una vita piuttosto sedentaria per beneficiare dei prodotti derivati dalle colture, il pastore che traeva sussistenza dagli animali, doveva fornire loro sempre nuovi pascoli e quindi condurre una vita in continuo movimento. I due diversi modi di vita portarono alla nascita di due diversi mondi culturali: quello degli agricoltori e quello dei pastori; anche se la linea di demarcazione non fu mai così netta, anzi, in base a situazioni particolari legate al clima, all’ambiente e alle vicende storiche, l’economia spesso risultò di tipo misto, con il prevalere di volta in volta dell’agricoltura o della pastorizia. Ma se -”L’addomesticamento-sfruttamento fu -solo- una delle componenti della economia propria degli agricoltori, (...) rappresentò -di contro- l’elemento quasi esclusivo della economia dei pastori, comportando una particolare attrezzatura, una struttura sociale di tipo patriarcale ed influendo conseguentemente sulla sfera delle manifestazioni spirituali e culturali.”- (Radmilli, op. cit.)
Nel corso del III millennio (età del rame o Eneolitico), si assiste ad un sostanziale incremento dell’allevamento, soprattutto ovino e caprino e alla pratica sistematica della transumanza, cioè allo spostamento periodico delle greggi, attraverso territori con condizioni climatiche diverse. In tutto il centro meridione diventa comune la tecnica dell’alpeggio o monticazione, transumanza verticale che prevede pascoli estivi in montagna e invernali a bassa quota. Il territorio abruzzese è particolarmente favorito sotto questo punto di vista, per l’esistenza di numerosi microambienti dove, a breve distanza, è possibile usufruire di condizioni adatte alla pastorizia in tutte le stagioni dell’anno.
In questo contesto, l’esigenza da parte delle popolazioni di ricercare situazioni ambientali e geografiche diversificate (terreni adatti all’agricoltura, alla pastorizia o alla caccia, oltre alla presenza di acque, boschi e valichi montani) portano all’acquisizione del concetto di territorio e quindi alla difesa degli insediamenti, sia abitativi che legati alle attività di sostentamento. Generalmente gran parte dei reperti dell’Età dei metalli (III - I millennio a.C. ) stanno a dimostrare una tendenza diffusa da parte delle popolazioni dedite alla pastorizia, ad occupare o a frequentare in modo ricorrente siti già predisposti alla difesa per la presenza di particolari caratteristiche morfologiche. Al contrario, su terreni meno impervi, in genere sui fianchi delle colline o lungo i corsi d’acqua, stanziavano le popolazioni aduse ad una economia di tipo agricolo o per le quali l’allevamento rappresentava soltanto un’attività sussidiaria. Questo binomio socio-economico si manterrà inalterato per millenni, fino a quando cioè le aree interne della regione si contrapporranno alle aree costiere, dove le caratteristiche più dolci del territorio e un clima più mite permetteranno il perdurare di situazioni segnate da minori contrasti.
Con il III millennio a.C. nell’Italia centrale vengono introdotte alcune importanti innovazioni nelle pratiche agricole: l’introduzione dell’aratro a trazione animale, l’addomesticamento del cavallo, la scoperta della ruota e l’invenzione del carro. -”In Abruzzo si assiste ad un forte investimento nei confronti dell’allevamento, con l’introduzione della pratica della transumanza verticale stagionale”- (D’Ercole, L’Italia nella protostoria, Pescara 1998).
Gli insediamenti riscontrati per l’Età del Bronzo sono generalmente ubicati in posizione non difesa, su terrazzi fluviali lungo le rive dei fiumi, mentre continua l’utilizzo delle cavità naturali, soprattutto come luoghi di culto e di seppellimento.
E` il prevalente indirizzo pastoralistico, su cui si basa l’economia dei territori montuosi della regione, a dare fin dai tempi più remoti un assetto ben preciso alla disposizione degli insediamenti umani e quindi alla geografia politica. -”... i grandi concentramenti armentizi- scrive Mattiocco- necessitano di quel vitale retroterra pastorale che solo la media montagna può offrire con i pascoli invernali e il facile accesso tanto alle pianure quanto alle zone prative d’alta quota.”-
Sarà proprio il passaggio da forme di nomadismo senza regole precise, ad un regime di transumanza verticale (monticazione) legata ai cicli stagionali e ai microclimi, a dare impulso a quella mobilità a più ampio raggio che in seguito si svilupperà in forme e modi sempre più vicini alla transumanza di epoca storica. -”In questo ambiente la coesistenza tra agricoltori e pastori non doveva essere sempre pacifica e i contrasti, affiorati fin dalla prima età dei metalli con la comparsa di genti nomadi a forte componente pastoralistica, erano destinati ad acuirsi...”- (Mattiocco, Centri fortificati nel contesto delle culture pastorali).
Con la metà del II millennio sorgono degli abitati, sovente in posizione naturalmente difesa, che avranno spesso una lunga durata nel tempo. -”L’intera dorsale appenninica si popolò in tal modo di una fitta rete di rilievi a volte ben protetti da poderose cinte murarie, che gli storici romani chiamarono oppida o castella, (...) oggi meglio conosciuti col termine di centri fortificati”- (Mattiocco, op. cit.). Tale ubicazione, suggerita dalle caratteristiche morfologiche del territorio, è in perfetta linea con l’indirizzo agricolo-pastorale delle culture dell’età del bronzo, che successivamente accentuarono il carattere stanziale degli insediamenti, almeno per quelli a prevalente componente agricola. Questa nuova organizzazione territoriale rappresenta uno dei fattori dominanti tra quelli che mutarono sostanzialmente il quadro storico all’inizio dell’età del ferro (IX-VIII sec. a.C.). -”E` il momento in cui forse comincia a concretizzarsi quella coerente regolamentazione intertribale che per secoli fu alla base del fenomeno della transumanza, (...) presupposto vitale per la sopravvivenza di popoli diversi, le cui norme giuridiche primordiali, tramandate oralmente di generazione in generazione, poggiavano sicuramente su di un consolidato sottofondo di sacralità che ne garantiva l’incondizionata accettazione e rispetto”- (E.Mattiocco, Centri fortificati preromani nella conca di Sulmona, Chieti 1981).
All’affermazione di questa tendenza senza dubbio contribuirono le favorevoli condizioni climatiche e il diffuso benessere derivante da una contenuta percentuale demografica e da una grande disponibilità di risorse naturali. Situazione questa idonea a favorire l’incremento delle culture pastorali che, se da un lato si avvantaggiano per un regime di buon vicinato e libera circolazione di uomini e merci, dall’altro con una economia fiorente favorivano le innate attitudini predatorie dell’uomo. Da qui l’esigenza di arroccarsi, con gli armenti e le greggi al seguito, in luoghi facilmente difendibili, che via via daranno origine a stanziamenti sempre più durevoli nel tempo, fino a quando le centurie di Roma, alla conquista della penisola, ritennero fossero postazioni militari troppo difficili da controllare e ne decretarono la fine espugnandole e smantellandole una ad una, annettendo così le popolazioni autoctone ormai organizzate in tribù ben definite del ceppo sabellico. -”Sorti originariamente per ospitare aggregati stabili o in funzione di comunità sparse nelle immediate adiacenze, per la loro distribuzione nell’ambito di distretti geografici ben definiti e coordinati, nell’insieme costituirono il sistema difensivo delle aree occupate dai singoli nuclei tribali. (La Regina, Centri fortificati preromani nei territori sabellici, Sarajevo, 1975).
Alla fine dell’età del ferro si vanno definendo quelle entità territoriali costituite da popoli quali gli Etruschi, i Latini, gli Umbri, I Piceni, i Sabini e i Sanniti. In Abruzzo vengono abbandonati gli insediamenti d’altura a vantaggio di siti di pianura, posti all’incrocio dei fiumi. (vedesi gli studi sulle origini della Sulmona protostorica (Van Wonterghem, I Peligni e il loro territorio prima della conquista romana). -”E` in questa fase che l’Abruzzo, abbandonato il sistema monarchico, si configura con stati confederali a base etnica, che costituiranno i vari popoli italici, riuniti sotto il più generale ethnos safin (Peligni, Marrucini, Vestini, Marsi, Pretuzii, Frentani, Carricini, Pentri, Equi).”- (V.D’Ercole, L’italia prima di Roma, Pescara 1998).
Nella seconda metà del IV sec. a.C., dopo le guerre sannitiche, inizia l’espansione romana che porterà alla conquista anche dell’Abruzzo. Questa, con la relativa opera di urbanizzazione e di programmazione territoriale, selezionerà gli insediamenti italici, elevando a rango di città sia abitati su pianori o di fondo valle, sia quelli d’altura. Il territorio montano con le sue propaggini collinari, caratterizzato dalla presenza di boschi, pascoli e campi irrigui, adatti alla coltivazione agricola, condizionò fortemente le attività umane. -”L’economia si basò principalmente sulla pratica della pastorizia transumante (...) associata allo sfruttamento delle risorse boschive (...) e all’agricoltura. Il trasferimento delle greggi transumanti lungo i tratturi e tratturelli, facilitato dalla pacificazione dei territori da attraversare, portò ad incrementare l’allevamento con conseguente bisogno di disponibilità di terreni da destinare a pascolo, a scapito delle aree boschive ed agricole.”- (S.Lapenna, Il Sannio carricino).
Alla fine della sanguinosa Guerra Sociale i popoli italici ottennero il riconoscimento della cittadinanza romana. Questo decretò il definitivo abbandono dei centri fortificati e la nascita dei municipi, lì dove esistevano già nuclei abitativi o santuari, dotati di una buona rete viaria. L’agricoltura ebbe un notevole incremento, pur rimanendo la pastorizia l’occupazione principale.
In età repubblicana (III-I sec. a.C.) il popolamento del territorio era caratterizzato da una serie di piccoli abitati rurali, costituiti da agglomerati di case realizzate in pietre legate da semplice terra o in legno. -” In un siffatto panorama abitativo convivevano un’economia agricola estesa alle prime propaggini della montagna, un’economia mista agricolo-pastorale nella fascia sino a 1200 metri circa e forme quasi prevalenti di economia pastorale a quote più alte, segnate da ritmi secolari nell’alterrnarsi delle stagioni e nel periodico spostarsi dei pastori e delle greggi dalla montagna al piano.”- (A.R.Staffa, Età repubblicana)
All’inizio dell’Età imperiale il quadro produttivo e insediativo della montagna dovette andare progressivamente consolidandosi con la formazione di vaste proprietà private (i fundi), organizzate in modo tale da integrare forme di economia agricola allo sfruttamento pastorale dei pascoli alti, in una zona caratterizzata da consistenti forme di proprietà comune o pubblica di vaste aree montane. A questo proposito appare significativa la definizione dei confini di molti comuni abruzzesi dalla forma stretta e allungata, a comprendere sia le fasce pedemontane che quelle di alta montagna, in una sorta di autonomia territoriale che permetteva senza allontanarsi troppo dagli agglomerati abitativi, una forma contenuta di transumanza dal monte al piano.
-”Se limitate sono le conoscenze su resti antichi consistenti, quali ville e fattorie, (...) ben poco è noto di quella congerie di insediamenti temporanei, gruppi di capanne o case di terra e sassi con connessi recinti, a cui si legava allora come in seguito la pastorizia.”- (A.Staffa, Età imperiale).
Tra il IV e il VI sec. d.C. i dati archeologici lasciano supporre ancora il consolidamento di grandi latifondi. Gli insediamenti si mantennero stabili tra valle e montagna; d’altra parte la fascia pedemontana di molte montagne abruzzesi, per le condizioni orografiche del territorio si presentava di non facile accesso e quindi appare probabile che il popolamento avesse potuto meglio conservarvisi, lontano dagli eventi e dalle devastazioni belliche dell’epoca (presenza dei Goti e Bizantini in Abruzzo). Tuttavia -”Il quadro territoriale della montagna abruzzese (...) dovette tuttavia andare incontro a precoci fenomeni parziali di disgregazione, di cui sono testimonianza anche i numerosi restauri della rete viaria intrapresi in Abruzzo da vari imperatori del IV secolo per garantire maggiore sicurezza ai viaggiatori. Anche la documentazione archeologica sembra suggerire il precoce abbandono di alcuni abitati sin dal V secolo. Appare tuttavia probabile la persistenza di forme di pastorizia collegate ad una contenuta transumanza (...). (A.Staffa, Tarda antichità).
A testimonianza della crisi dell’assetto economico e sociale che colpì il mondo della montagna, relegando le popolazioni locali ai margini della società, si sono rinvenuti alcuni editti imperiali che lasciano trasparire la diffidenza nei confronti delle genti di montagna, accomunando i pastori ai briganti che all’epoca già infestavano alcune province oggi ricadenti nei confini abruzzesi.
L’evoluzione storica
Dopo le devastazioni del territorio ad opera dei Longobardi, tra il VII e l’VIII secolo si assiste al consolidamento di una classe di proprietari terrieri di origine germanica. Tuttavia il popolamento sparso di antica tradizione continua, intorno ai luoghi di culto sparsi nella campagna: chiese e piccoli monasteri. -” A numerose di queste chiese rurali sembrano infatti correlabili piccoli insediamenti costituiti da poche case (...); trattasi sovente di Curtes prive di un centro signorile (...) costituite da semplici case di contadini e pastori, e correlabili ad un retroterra montano essenzialmente pastorale e di indubbia pertinenza signorile (...)”- (A.Staffa, Altomedioevo, Teramo, 1996). In questo ambito la pastorizia, fortemente frammentata, doveva essere per lo più affidata alle popolazioni di montagna e gestita a livello familiare e in territori ben definiti, soggette più al potere di abbazie e monasteri che non al debole e lontano potere civile. Con essa hanno modo di sopravvivere le forme ridotte di transumanza verticale.
Con la fine dell’Impero Romano in un territorio perennemente minacciato dalle invasioni di popoli provenienti soprattutto dall’oriente e dall’altra sponda del bacino mediterraneo, si ebbe la riscoperta dei siti d’altura di epoca preromana e il conseguente spopolamento delle vallate e degli agglomerati abitativi. Intorno all’anno Mille scompaiono i riferimenti storici riguardanti la transumanza, in seguito al congelamento delle attività umane e alla profonda crisi sociale, economica e politica, dalla quale nessun territorio della penisola poté dirsi risparmiato.
La lunga continuità insediativa dei piccoli centri rurali sparsi nella campagna e media montagna, condizionati dall’ambiente e dai ritmi della pastorizia, è soggetta a un lento ma inesorabile esaurimento, con l’isolamento e la mera sopravvivenza delle ultime forme insediative sparse, dislocate in quota, legate a modeste attività di transumanza verticale. -”Si avviava così al definitivo tramonto quanto si era sino ad allora conservato del paesaggio antico della montagna, (...) quasi per lenta, naturale e drammatica consunzione correlabile all’ormai insopportabile drenaggio di risorse economiche , ed alla più generale crisi economica e demografica del secolo XIV (...)”- (A.R.Staffa, L’incastellamento e la nascita del paesaggio moderno, Teramo 1996).
Ormai la montagna restava riservata alla permanenza stagionale dei pastori e delle greggi, per lo più ricoverati in manufatti di pietra a secco o in ripari sottoroccia. Con l’organizzazione del territorio in potenti feudi e la crisi degli insediamenti abitativi sparsi sulla montagna, si ha un ritorno alla grande transumanza (già diffusa nelle epoche immediatamente precedenti la conquista romana), ora esclusivo appannaggio dei signori feudatari, che ne traevano grande giovamento economico sia direttamente, attraverso la proprietà di migliaia di capi di bestiame, sia con l’introito proveniente dalle gabelle che regolavano il passaggio tra i confini dei vari regni, attraverso i quali si snodava il percorso dei tratturi.
Nel XV secolo l’economia venne ad assumere una netta impronta di tipo pastorale, con l’abbandono quasi completo dell’agricoltura che, declassata a rango di attività di sussistenza, finì per ribaltare quel concetto che agli albori della storia aveva permesso alle comunità umane e alle prime civiltà la loro completa affermazione riscattando proprio attraverso l’agricoltura quella condizione semi-animale che durava da milioni di anni.
Preceduta da alcuni primi editti come quello di Federico II, che regolava l’assetto del territorio destinato ai pascoli, la normativa emessa da Alfonso D’Aragona alla metà del 1400, che regolarizzava la transumanza attraverso la gestione da parte dello stato del movimento delle greggi e della produzione della lana, diede un impulso definitivo all’affermazione di una economia complessivamente basata sull’allevamento degli ovo-caprini.
Fino alla metà del 1600, secolo in cui inizia a farsi sentire la crisi di quel sistema che da secoli fissava i “privilegi” dei proprietari degli armenti più che altro a scapito dell’agricoltura e dei proprietari dei fondi, la pastorizia mantenne un ruolo preminente nell’organizzazione economica; basti pensare che nel 1605 vengono censiti solo in Abruzzo 5 milioni di capi ovini, a fronte di una complessiva occupazione lavorativa di 50.000 persone (fonte: M. e W. Pellegrini, La presenza dell’uomo sulla Majella, TE ‘96).
Nel 1700, nonostante il rilancio del settore ad opera dei Borboni e una crisi economica in fondo favorevole proprio a questo tipo di attività di allevamento, inizia quella lenta decadenza della pastorizia che nel secolo successivo, con alcune riforme di Giuseppe Bonaparte, perderà ormai gran parte degli incentivi, con l’annullamento di quei privilegi secolari legati alla transumanza, che l’avevano resa attività altamente lucrosa e a basso costo. Furono inoltre alcune carestie a cavallo dei secoli XVIII e XIX a spingere l’attenzione sociale nuovamente verso l’attività agricola, fonte indispensabile per l’approvvigionamento di materie prime per la sopravvivenza, grazie anche alla diffusione di prodotti alternativi provenienti dall’america, come mais, fagioli, zucche, pomodori o che ben si adattavano alle zone di montagna come la patata.
Monta ora lentamente quella muta protesta che porterà clamore e sangue nelle piazze italiane fino alla metà del 1900 e che sarà alla base della Lotta di Classe in Europa, ma soprattutto nei paesi latino-americani: si reclama infatti quella Riforma Agraria in grado di portare finalmente benessere e dignità sociale in quella classe di braccianti agricoli che hanno attraversato la storia come un’ombra e le cui condizioni ancora sotto il governo Tambroni (1960), erano paragonabili a quelle dei servi della gleba di medievale memoria.
Agli inizi del XIX secolo quantunque gran parte delle aree interne dell’Abruzzo e dell’Appennino centromeridionale fossero essenzialmente sorrette da una economia povera legata alla pastorizia e allo sfruttamento delle risorse del bosco e della montagna e nonostante gli sforzi di salvare la Dogana che regolarizzava le entrate fiscali per l’attività transumante, il vecchio sistema della grande transumanza poteva dirsi definitivamente tramontato. L’agricoltura, grazie alle moderne attrezzature e ai nuovi sistemi di lavorazione, torna alla ribalta giusto in tempo per sfamare le grandi masse popolari a cavallo delle due guerre mondiali.
La transumanza continua comunque in chiave ridotta: 500.000 capi agli inizi del ‘900 (fonte: coop. Pinus Nigra, La Transumanza, 1999); ma è soprattutto quella forma di monticazione o transumanza verticale, effettuabile anche nell’ambito di piccole comunità e in quasi tutte le zone montuose della regione, circoscritta proprio alle aree interne più depresse, a sopravvivere praticamente intatta fino ai nostri giorni, soprattutto sui massicci montuosi della Majella e del Gran Sasso.
Caratteri distintivi della pastorizia in Abruzzo
Forme di transumanza minore, come quella verticale, sono da sempre esistite, a fianco della grande transumanza. Quando con la bella stagione le greggi rientravano dalla transumanza effettuata nel Tavoliere delle Puglie, generalmente agli inizi di maggio, nei centri abruzzesi interessati dall’allevamento ovi-caprino, i pastori, a loro volta proprietari di piccole greggi, usavano costituire un particolare tipo di aggregazione, basato sulle parentele e i rapporti di buon vicinato delle piccole comunità montane, per portare al pascolo gli animali. Questo metodo di allevamento, regolato da regole ben precise, , è conosciuto con il termine Morra sui monti della Majella e Catarina nel comprensorio del Gran Sasso.
Le caratteristiche fondamentali di questo tipo di allevamento consistono appunto nei limiti spaziali e temporali in cui è circoscritto il pascolo degli animali, che durante l’inverno (in assenza di manodopera utile) restano nelle stalle e in estate salgono sui pascoli montani durante il giorno e la notte vengono riportati in paese. Essendo legato a particolari contingenze, questo tipo di pascolo si svolge sempre nel medesimo territorio, generalmente nelle zone contigue agli abitati. La cura del gregge, che raccoglie le pecore dei diversi proprietari, viene così affidato ad un unico pastore (massaro), con grande risparmio di tempo ed energie per la comunità, che ha così modo di dedicarsi ad altre incombenze, come il lavoro dei campi, la raccolta dei prodotti dell’orto, il taglio della legna, la manutenzione di stalle e abitazioni. In questo modo nei paesi di montagna, le famiglie avevano oltretutto modo di incrementare la loro magra economia sia dedicandosi alla loro piccola proprietà, sia lavorando come pastori salariati per i ricchi armentari della regione.
Solo l’esperienza affinata nel corso dei secoli ha permesso la messa a punto di un’organizzazione abbastanza complessa, basata sull’apporto di lavoro e la collaborazione a rotazione di ogni singolo proprietario. Per far parte di questi gruppi (morre o catarine) bisognava avere un numero cospicuo di animali, in genere 100-200 pecore, ma anche chi possedeva un minor numero di animali dava vita con altre persone a più piccoli raggruppamenti. Ovviamente le regole non scritte di queste organizzazioni oltre a contemplare il giusto ricavato (in termini di latte e formaggio) per ogni proprietario, prevedevano anche ben precise responsabilità per il pastore di turno, per quanto riguardava l’incolumità del gregge o la perdita di capi di bestiame. Per cui anche il numero totale degli animali (fino a 500) era dettato dall’esperienza: la capacità di un pastore, con uno o due giovani aiutanti e i cani, a gestire il gregge.
Chi poi possedeva solo qualche capo, come semplice mezzo di sussistenza, effettuava un pascolo giornaliero ancor più stanziale, praticamente a monte degli abitati. In questi ultimi casi era la donna ad occuparsi di questa incombenza, della mungitura e della produzione di formaggio e ricotta.
Le strade della transumanza
Già dalle sue origini il fenomeno della transumanza, cioè lo spostamento da un territorio ad un altro di un gran numero di capi di bestiame, ha avuto bisogno di sviluppare una serie di tracciati, dalle particolari caratteristiche, che non facevano altro che ricalcare i percorsi millenari dei pastori del neolitico e, ancor prima, dei cacciatori del paleolitico. Tracciati che attraversavano i pianori e valicavano le montagne, sfruttando i punti più deboli dell’orografia spesso complessa del territorio e scegliendo di volta in volta con intuito le zone più franche per la sicurezza e remunerative per i tempi di percorrenza, le soste, la presenza di acqua e i ripari. Le lunghe valli fluviali ricche di acque pescose e ospitali terrazzi rocciosi, i larghi valichi montani con praterie e boschi pieni di selvaggina e ripari sottoroccia, hanno costituito le vie di penetrazione e di colonizzazione del territorio abruzzese fin dalla più antica preistoria. Su queste tracce a volte esili, nel corso dei millenni si sono mossi drappelli di guerrieri, monaci, anacoreti e briganti, insieme ai pastori con le loro greggi.
La rete stradale dell’Impero Romano, fu la prima a percorrere razionalmente e in modo imponente tutto il territorio della penisola. Ma all’epoca la progettazione di simili opere era mossa da una logica esclusivamente di tipo militare: le grandi strade lastricate, munite di posti di controllo e per il cambio dei cavalli, serviva esclusivamente per il transito degli eserciti che da Roma partivano per gli angoli più lontani dell’impero. Tutt’al più al seguito delle legioni si muovevano i mercanti che facevano giungere sui mercati della capitale le ricche merci provenienti dalle esotiche e ricche terre del Mediterraneo e del Medio Oriente. I pastori avevano bisogno di altri tipi di percorsi, adatti al transito degli animali, tra terre in grado di dare alle greggi un giusto sostentamento, l’acqua per l’abbeverata e un rifugio per la notte. Così, a fianco di una rete viaria civile, si sviluppò una rete parallela di piccoli e grandi sentieri per le greggi, i Tratturi, che presto divenne altrettanto imponente quanto la prima. In Abruzzo gli assi principali di questa rete era costituita dai quattro rami: L’Aquila-Foggia, Celano-Foggia, Pescasseroli-Candela, Castel di Sangro-Lucera; ma dai centri più piccoli del territorio partivano una serie di rami secondari che si ricollegavano alla rete principale. In alcune zone di montagna come la Majella, particolarmente impervie e non adatte al passaggio delle grandi greggi, la diffusione della transumanza verticale diede ugualmente origine ad una piccola rete di “sentieri per capre”, il cui uso si perde nella notte di tempi e che ancora oggi incide i versanti più impervi dei monti, a testimonianza dello stretto connubio esistente in questa regione tra uomo e territorio.
Giancarlo Guzzardi - © diritti riservati